Tornare sul luogo del delitto è sempre rischioso. Lo sa bene Peter Jackson che torna e ci riporta nuovamente nella Terra di Mezzo a undici anni di distanza dal primo capitolo di Il Signore degli Anelli. L’impresa, ardua e insidiosa, di non far rimpiangere la Trilogia dell’Anello e di esserne all’altezza può dirsi in buona parte riuscita. Bisogna innanzitutto tenere presente le rispettive opere letterarie alla base di queste due saghe cinematografiche. Se la divisione in tre pellicole di Il Signore degli Anelli era la scelta più logica e auspicabile vista l’enorme mole del romanzo fantasy di Tolkien, che supera le 1200 pagine suddivise in tre volumi, appare un po’ azzardata la volontà di ricavare tre film da un libro di poco più di 300 pagine come Lo Hobbit, prima incursione letteraria del celebre scrittore inglese nell’immaginaria Terra di Mezzo, inizialmente pensato come una fiaba per bambini. Le riserve ovviamente potranno essere sciolte o meno solo quando si concluderà questa nuova trilogia pensata in un primo momento come un dittico.

La storia, ambientata circa sessant’anni prima dei fatti narrati in Il Signore degli Anelli, ha per protagonista un giovane, pacifico e tranquillo Bilbo Baggins, scelto dallo stregone Gandalf per partecipare ad un’avventura, in compagnia di tredici nani con a capo il valoroso Thorin Scudodiquercia, mirata a riconquistare la Montagna Solitaria, ovvero Erebor, un tempo regno e dimora dei nani scacciati poi dal terribile drago Smaug, deciso ad impossessarsi degli immensi tesori custoditi al suo interno. Bilbo, inizialmente restio a prender parte a un viaggio pieno di pericoli, non saprà resistere al richiamo dell’avventura che lo porterà ad entrare in possesso dell’Unico Anello dopo un memorabile e temibile incontro con Gollum, l’infelice creatura corrotta inesorabilmente dal potere malefico dell’anello forgiato da Sauron.

Il film si apre con Bilbo anziano, interpretato come nella precedente trilogia da Ian Holm, intento a scrivere della sua avventura in compagnia dei nani alla vigilia della festa per il suo centoundicesimo compleanno. La sensazione di déjà vu è molto forte, anche per la presenza di Elijah Wood nei panni di Frodo: sembra quasi di assistere alla prima parte di  La compagnia dell’anello. Ci troviamo infatti nello stesso momento, ovvero a pochi giorni dalla partenza del lungo viaggio che porterà Frodo fino al Monte Fato per distruggere l’anello di Sauron. La narrazione effettiva degli eventi contenuti nello Hobbit prende il via tramite un flashback, con Bilbo che ricorda del suo primo incontro da giovane con Gandalf. Un’espediente utilizzato dal regista come un ideale trait d’union tra le storie narrate da J. R. R. Tolkien nelle sue due opere più celebri. Difficile quindi, se non impossibile, scrollarsi di dosso il fantasma dell’epica saga dell’Anello nella prima parte del film dove la narrazione e il ritmo stentano a decollare e si ha quasi l’impressione di assistere ad una copia sbiadita delle pellicole precedenti, entrate di diritto nella storia del cinema fantasy di tutti i tempi. Invece col procedere degli eventi la nuova creatura di Peter Jackson prende forma e migliora a vista d’occhio, cresce in maniera costante fino ad acquistare un ritmo sostenuto, se non vertiginoso, in alcune sequenze altamente spettacolari come la fuga dei nani e di Gandalf dal covo degli orchi dal sapore videoludico e intrisa di abbondanti dosi d’ironia. Ci addentriamo nel cuore del film con la magnifica scena della gara d’indovinelli tra Bilbo, magistralmente interpretato da Martin Freeman – il dottor Watson della serie Tv Sherlock – e Gollum a cui presta le movenze l’abituale e straordinario Andy Serkis, che in questo caso non si limita alla performance capture ma è stato scelto dallo stesso Peter Jackson come direttore delle riprese della seconda unità. Una sequenza da antologia con il personaggio di Gollum a rubare la scena all’attore in carne ed ossa Martin Freeman, com’era già accaduto nei momenti che lo vedevano protagonista nei film Le due torri e Il ritorno del re.

Ottimi gli effetti speciali, curati come sempre dalla neozelandese Weta, efficace l’utilizzo del 3D che risulta avvolgente ed immersivo, evocative e suggestive le musiche composte nuovamente da Howard Shore, che rielabora le tracce composte per la saga precedente con l’aggiunta fondamentale del tema portante associato alla simpatica combriccola dei nani.

Il regista neozelandese, autore anche della sceneggiatura insieme alle sodali Philippa Boyens e Fran Walsh con l’aggiunta di Guillermo del Toro, che in un primo momento avrebbe dovuto dirigere il progetto, riesce nel non facile compito di ricreare e suscitare quel senso di meraviglia che aveva incantato le platee di mezzo mondo ai tempi della sua titanica impresa di dar vita in maniera realistica e credibile al mondo della Terra di Mezzo. Squadra che vince non si cambia e così Jackson si avvale dei suoi collaboratori abituali, compreso il direttore della fotografia Andrew Lesnie, e di un cast dove ritroviamo con piacere alcuni degli attori della trilogia dell’anello come Ian McKellen, sempre a suo agio nei panni dello stregone buono, Cate Blanchett, Hugo Weaving e Christopher Lee. Convincente la prova di Richard Armitage nel ruolo di Thorin, personaggio concepito in sede di script come un novello Aragorn in versione più cupa.

Dopo un inizio faticoso e un po’ prolisso, Lo Hobbit: Un viaggio inaspettato centra il bersaglio, scorre fluido nelle sue quasi tre ore di durata e termina in crescendo grazie ad un finale epico e di grande impatto emotivo. Appuntamento al prossimo anno, per proseguire l’avventura di Bilbo e dei suoi compagni di viaggio attesi da una minaccia oscura e terrificante sapientemente evocata nell’ultimo fotogramma di questo primo capitolo.

Boris Schumacher