L`angolo di Michele Anselmi | Pubblicato su Il Secolo XIX
Una passione cinefila divorante? Un’ambizione segreta? Il coronamento di un sogno? Giunti al culmine della carriera, i giornalisti di grido, specie se vengono dalla politica e dintorni, si mettono a scrivere di cinema. Proprio da critici o quasi. Gli incassi scendono, i film sono allegramente “scaricati” e visti gratis alla faccia del diritto d’autore, le recensioni contano poco o niente, per la serie «pagine piene, sale vuote. Eppure l’idea di essere ammessi a una proiezione privata e sdottoreggiare il giorno dopo in prima pagina, magari “problematizzando” il tema del film per riportarlo a una dimensione autobiografica (io mamma, io papà, io cattolico, io ateo, io progressista, io reazionario…), è una tentazione irresistibile. Infatti resistono in pochi.
Non che i critici patentati, quelli che il compianto Tullio Kezich chiamava ironicamente “scribi”, siano sempre meglio. Anzi. La routine genera pigrizia, rassegnazione, assuefazione, povertà di stile. Così è raro che la recensione classica, di merito artistico, finisca in prima pagina. Magari solo per i film di Nanni Moretti, Paolo Sorrentino o Matteo Garrone, meglio se parlano del Caimano, del Divo o di Gomorra. E quando succede non sono più i critici titolari a scriverne, visti come specialisti e noiosi, bensì le firme di punta, ritenute più yé-yé e aggressive, dotate di antenne sensibili, in grado di intercettare, come s’usa dire oggi, gli umori della società.
D’altro canto, se è vero che in ogni italiano si annida un commissario tecnico di calcio, non v’è dubbio che in quasi tutti i giornalisti alberga un critico di cinema. Carlo Puca, fine retroscenista politico di “Panorama” finito in una delle fantasiose commissioni nominate dal ministro Giancarlo Galan prima di andarsene, ha appena ricordato al “Secolo XIX” d’essere iscritto al Sindacato giornalisti di cinema. Perfino un augusto banchiere come Giovanni Bazoli, sulla prima pagina del “Corriere della Sera”, ha recensito “Il villaggio di cartone” spiegandoci che «Olmi questa volta non ha voluto comporre un affresco realistico e poetico (come “L’albero degli zoccoli”) né un racconto epico (come “Il mestiere delle armi”)», bensì «realizzare un film al fine esclusivo di porre agli spettatori – e probabilmente riproporre a se stesso – alcuni interrogativi che sono tra i più inquietanti del tempo in cui viviamo». Grazie, non c’eravamo arrivati.
Molto s’è sorriso, recentemente, di un’accorata confessione di Concita De Gregorio «sul senso di sconfitta e sgomento, una specie di incredulità» da lei vissuto, in quanto madre, di fronte al tifo sperticato dei suoi figli per “I soliti idioti”. Non parlava da padre, invece, Luca Telese quando, pressato dal bisogno impellente di esprimersi su “Habemus Papam”, vergò sul “Fatto”: «Ho divorato tutto quello che è stato scritto sul film di Moretti, e mi sono reso conto che nessuno ha parlato di una delle cose che a me è piaciuta di più: cioè della straordinaria capacità di tenere insieme, con una leggerezza rara e con un ritmo di narrazione incalzante, un sentimento molto tragico e una sceneggiatura molto comica». Nessuno?
Ogni tanto, però, i critici-critici si vendicano. Come quella volta che Paolo Mereghetti del “Corriere della Sera”, letta la recensione di “Uomini che odiano le donne” a firma del critico letterario di “Sette”, vergò piccato: «A ignorare del tutto la trama forse si finisce per gustarlo di più, senza farsi prendere dal perverso giochino delle corrispondenze più o meno mantenute tra pagina scritta e schermo (argomento su cui si è già espresso sulle pagine del nostro settimanale Antonio D’Orrico, e su cui ha apposto la sua definitiva sentenza: sì, il film rispetta perfettamente il romanzo, anche se “raffredda” l’attività sessuale del protagonista. Ipse dixit)». Poi, s’intende, meglio scrivere di cinema che provare a farlo. Quando Indro Montanelli si improvvisò regista per “I sogni muoiono all’alba” il risultato non fu dei più memorabili.