“L’uomo che credeva nei vampiri” di Massimiliano Boschini, Fabio Camilletti e Anna Preianò, in libreria per Profondo rosso edizioni, si prefigge l’obiettivo di togliere polvere dal glorioso nome di Emilio De Rossignoli (1920 – 1984), giornalista milanese, esperto di cinema, saggista, studioso e divulgatore di fenomeni occulti, attraverso una serie di interventi in grado di restituirne la complessità e l’importanza per la storia del fantastico non solo italiano. Presentiamo il prezioso libro attraverso un’intervista con Fabio Camilletti.

“L’uomo che credeva nei vampiri” fa luce su Emilio De Rossignoli, nome notissimo agli appassionati del fantastique, ma meno a tutti gli altri. Come descrivereste questo eccentrico giornalista in dieci righe?
Fabio Camilletti: De Rossignoli ebbe la fortuna di vivere nell’età della stampa di massa, quando le edicole erano invase da rotocalchi, romanzi tascabili, fumetti; e di abitare nella città giusta, dove le case editrici spuntavano come funghi, generando un mercato un po’ piratesco e immensamente vitale. L’opera di De Rossignoli – quella visibile – è solo la punta dell’iceberg: la grande opera di De Rossignoli è quella nascosta, le lettere dei lettori che si scriveva da solo e alle quali rispondeva, l’immane macchina redazionale dei numerosi periodici ai quali collaborava. Un lavoro che nutre costantemente le sue altre opere, sia quelle pubblicate col suo vero nome che quelle sotto pseudonimo. In questo, De Rossignoli somiglia molto a un suo più illustre coetaneo, di cui pure parliamo nel libro: Giorgio Scerbanenco, come lui milanese d’adozione, redattore di periodici femminili e romanziere attento al volto oscuro della Milano (e dell’Italia) del boom economico.

Un ritratto senz’altro appassionante quello che consegnate di De Rossignoli: dalle testimonianze che avete raccolto, in breve, viene fuori il ritratto di un “Conte Vampirologo” che appartiene ad un altro tempo, un affabulatore nato, votato all’invenzione anche per quanto riguarda i fatti legati alla sua vicenda biografica… Possiamo parlare di questo e identificare, se c’è, un modello che De Rossignoli potrebbe aver tenuto presente?
F. C.: Negli anni Sessanta, certe idee erano nell’aria: letteratura come menzogna, narratore inaffidabile, morte dell’autore… De Rossignoli ci arriva dal giallo, un genere che (da Agatha Christie in poi) aveva insegnato, assai più di tanta letteratura high brow, che di chi parla c’è sempre da diffidare. È anche dai polizieschi da edicola che passa il disincanto postmoderno.

Con l’esclusione di “Io credo nei vampiri”, l’unico testo-saggio del giornalista ad essere stato ripubblicato recentemente, larga parte della sua produzione è ormai introvabile. Come vi spiegate questo silenzio su una personalità che il vostro testo lavora per riconsegnare all’emersione?
F. C.: In parte è imputabile a lui: De Rossignoli non cercava la fama letteraria, anzi. Certe sue scelte sono talmente spiazzanti, per come riescono a inimicarsi praticamente chiunque, che verrebbe da pensare a una forma neanche troppo malcelata di autolesionismo. Ma c’è anche il clima iper-ideologico degli anni in cui De Rossignoli vive e opera, non troppo favorevole a un esule istriano e anticomunista che sceglie deliberatamente di cimentarsi con generi e linguaggi considerati, all’epoca, di serie B. E purtroppo De Rossignoli muore proprio all’alba degli anni Ottanta, quando forse avrebbe potuto trovare un nuovo pubblico e nuovi interlocutori. Il finale di “H come Milano” è degno dei migliori ‘cannibali’ di inizio anni Novanta.

Dopo un ampio profilo critico, “L’uomo che credeva nei vampiri” dà nuova vita al romanzo horror “Lilith” e al singolare “Gli efferati”, che conferma l’interesse per la nera dell’autore. In che modo questi due titoli sono rappresentativi della sua intera opera?
F. C.: “Lilith” è un caso molto interessante. Esce in una collana di gialli tascabili con il titolo “Il mio letto è una bara”: “Lilith” è il titolo del finto originale statunitense, come accadeva in quell’epoca. E però, in “Io credo nei vampiri”, De Rossignoli recensisce proprio “Lilith” fingendo che non sia opera sua. Ecco, dandogli il titolo primigenio e originale abbiamo voluto dare un ulteriore giro di vite al gioco metatestuale imbastito da De Rossignoli: “Il mio letto è una bara” è un romanzetto dimenticabile, ma “Lilith” è un caposaldo della letteratura vampirica del Novecento, capace di dialogare a distanza con le “Cronache dei vampiri” di Ann Rice. “Gli efferati” rappresenta invece l’altro De Rossignoli, il saggista (che comunque resta un narratore formidabile).

La parte quarta del volume, quella delle testimonianze, mette insieme contributi di chi, a vario titolo, lo ha conosciuto. Possiamo parlarne? Tra gli autori degli interventi c’è Luigi Cozzi, il vostro editore…
F. C.: In realtà Cozzi è l’unico che lo abbia conosciuto fisicamente. Gli altri – quelli che siamo riusciti a scovare – l’hanno conosciuto solo per telefono o per lettera. Un motivo in più per vedere in De Rossignoli l’autentico archetipo del narratore postmoderno, che svanisce completamente dietro ai tasti della sua Olivetti.

Alla base del vostro testo c’è un interesse per la letteratura sommersa, per le stranezze letterarie… Nell’introduzione al testo, vi presentate come “Il clan del Mattatoio”: potete spiegarci di più? Qual è, se c’è, il vostro nuovo progetto?
F. C.: Qui posso parlare solo per me. Dopo “L’uomo che credeva nei vampiri” ho scritto un libro sull’occulto nella cultura italiana degli anni Sessanta – “Italia lunare” -, che ha avuto un certo successo ed è arrivato finalista al premio Gadda. In quel libro c’è De Rossignoli, ma anche molti dei suoi contemporanei di cui io e altri abbiamo scritto su Mattatoio: Ornella Volta, Pier Carpi, Dino Buzzati, Mario Soldati, Libero Samale… E ora sto lavorando al seguito: il titolo non è stato ancora deciso, l’editore nemmeno, ma coprirà gli anni 1978-1992.