Nella storia del cinema ci sono film che, per qualche magia sconosciuta, si imprimono nell’immaginario collettivo e diventano cult. L’uomo che uccise Don Chisciotte entra nella leggenda molto prima del suo esordio sugli schermi. Ideata, imbastita, tenuta in sospeso con non poca fatica (per venticinque anni), l’opera di Terry Gilliam viene alla luce, frutto di numerosi fallimentari tentativi. L’ultima versione è presentata alla cerimonia di chiusura del 71° Festival di Cannes. Tutto ebbe inizio nei primi anni 2000, quando gli inglesi arruolarono Jean Rochefort e Johnny Depp per interpretare Don Chisciotte e Sancho Panza. Il resto è cosa nota. Le riprese si trasformeranno rapidamente in un fiasco tale da far precipitare la produzione in bancarotta, la sfortunata avventura darà vita al documentario Lost in la Mancha. Il film non è un adattamento fedele del capolavoro di Cervantes e tanto meglio. Gilliam riutilizza la tela della storia, adatta gli episodi più iconici, arretra rispetto al romanzo per lasciar posto a ciò che costituisce il suo cinema. Toby (Adam Driver) è un registucolo da strapazzo, cinico e disilluso. In terra di Spagna ritrova per caso una copia del suo primo film, un adattamento del Don Chisciotte, tesina di laurea, frutto dei primi e sinceri entusiasmi di gioventù. Sconvolto da questa reminiscenza, segue le orme delle vecchie riprese in cerca dei siti e dei personaggi di allora. Lungo il cammino si imbatte in Javier (un grandioso Jonathan Pryce), il suo ex primo attore, imprigionato a vita nel ruolo del cavaliere errante. L’incontro tra i due uomini si svolgerà in una sequenza che ha dell’incredibile: Adam Driver entra nella roulotte in cui viene proiettato il suo film. Oltrepassando il lenzuolo bianco su cui le immagini prendono forma, incontra “Don Chisciotte” che ovviamente lo scambia per il fedele scudiero, Sancho Panza. L’avventura può avere inizio. La storia si svolge nella pura tradizione del romanzo picaresco, punteggiata da incontri pittoreschi e incredibili avventure. Nel film si ritrovano tutti gli elementi che costituiscono il cinema di Gilliam: un personaggio che fugge la realtà e i suoi vincoli attraverso la finzione, il caos che attanaglia il mondo, la sensazione claustrofobica che invade ogni immagine. L’autore dirige attraverso ampie inquadrature che distorcono la prospettiva e isolano i personaggi nel loro ambiente, la macchina da presa in continuo movimento e in perpetuo disequilibrio. L’universo di Chisciotte è fatto su misura per il cinema di Gilliam. Numerosi i riferimenti alla sua filmografia. Si pensi a Monty Python e il Sacro Graal: il combattimento tra i due cavalieri, le scene a cavallo nella foresta e i rapidi e numerosi anacronismi. Così come i richiami a I banditi del tempo, non solo per le affinità in materia di direzione artistica, ma anche e soprattutto per la porosità tra realtà e finzione, vero filo conduttore nella cinematografia del regista. L’uomo che uccise Don Chisciotte invita il suo pubblico a ricongiungersi alle meraviglie degli albori per riconnettersi all’essenza della creazione.
Toby torna al suo film giovanile per sfuggire al cinismo della contemporaneità che lo avvelena e ritrova il vero se stesso attraverso una ricerca iniziatica romanzesca. L’immaginazione è l’unica via di fuga alle brutture e ai mali della realtà materiale. Questo il nodo che governa l’intera filmografia di Gilliam. Don Chisciotte incanta il mondo che lo circonda attraverso il modo in cui guarda e percepisce la realtà e le cose. Il film è un invito a cambiare look, scegliere il sogno e la finzione per reinventare il mondo.

Chiara Roggino