Una premessa è necessaria perché quando si guarda il documentario “L’uomo delfino”, al cinema dal 5 al 7 ottobre, bisogna porsi una domanda: stiamo guardando il mito di Jacques Maylon in quanto campione di immersione, oppure l’uomo che c’è dietro?
In realtà la risposta la dà il regista Lefteris Charitos tramite una tecnica narrativa articolata. Dopo i primi venti minuti, infatti, è chiara l’idea che la vita di Maylon sia presentata in tre blocchi distinti che, con azzardo, potrebbero essere riassunti in tre semplici titoli: l’Armonia, l’Uomo e il Mito. Nella prima fase la sinergia è l’elemento distintivo dichiarato dal connubio tra il rumore dell’acqua di mare, la melodia pacata in sottofondo e lo scatto ritmico che la ripresa acquisisce per legarsi all’immagine del delfino, citata all’inizio dalla voce narrante di Jean – Marc Barr. La sinergia definisce ogni scena, riprese di archivio oppure costruite appositamente, e lega flashback e voce narrante, immagini a colori e in bianco e nero, Maylon ed il suo elemento, l’acqua. Questa prima fase immerge lo spettatore in un’ambientazione quasi mistica ed eterea, sottolineata dal messaggio di Enzo Maiorca “La nostra passione per l’abisso blu ci rende fratelli e mi spinge a chiedere la protezione di Nettuno per te nelle profondità”. Passione, sostegno e misticismo uniscono coloro che, come guerrieri indomabili, affrontano l’immensità di un mare tanto più grande da rendere l’uomo quasi inesistente, proporzione espressa chiaramente nelle riprese delle immersioni.
La fase dell’Uomo, sancisce uno scatto netto: Maylon perde la sua veste di “divinità marina” e torna uomo. Spettatore e protagonista riemergono dall’acqua per atterrare sulla terra ferma. Quella linea armonica perfettamente tesa inizia a curvarsi mostrando squarci di realtà di un uomo che, lontano dal suo habitat naturale, rimane un uomo con i suoi difetti e debolezze. Si assiste ad un ossimoro fin troppo noto legato all’emergere di aspetti taciuti all’esterno e che, se soffocati per lungo tempo, portano all’esternazione di tratti superficiali, egoistici e frustranti per sé stessi e per gli altri. In questa seconda fase il personaggio sembra assorbire l’uomo, o forse l’uomo aspira ad essere un mito diverso dalle aspettative di amici e familiari.
Il mito di Jacques Maylon riacquisisce la sua sinergia nel momento in cui si immerge nuovamente in acqua: in quel momento la complessità della sua persona si ferma, la musica ritorna pacata, il vuoto intorno a sé è il vuoto dei pensieri ma, nonostante le grandi vittorie del 1966, 1968 e quella del 1976, qualcosa di incompiuto divide ancora l’uomo e il mito. “L’uomo delfino” non è solo il racconto di un campione, non è solo testimonianze dell’uomo Jacques, è piuttosto metafora, simbolismo e cultura, è rendere umano chi non ci aspetteremmo ed è il riconoscimento dello spettatore negli stessi limiti che, uomini e miti, sfuggono allo stesso modo per non sprofondare inesorabilmente nell’abisso.
Cristina Quattrociocchi