L’angolo di Michele Anselmi
Rifare un proprio film di successo con più soldi e attori hollywoodiani dev’essere una tentazione irresistibile. Penso, solo per dirne due, all’austriaco Michael Haneke col suo “Funny Games” o al cileno Sebastián Lelio col suo “Gloria”; ma il norvegese Hans Petter Moland per certi versi ha superato se stesso. “Un uomo tranquillo”, nelle sale da giovedì 21 febbraio con Eagle Pictures, dura esattamente quanto l’originale “In ordine di sparizione” che uscì fugacemente da noi nel 2014 grazie a Teodora: 119 minuti. Spostando l’azione dai ghiacci della Norvegia alle cime innevate del Colorado, il cineasta nordico nei fatti ha pantografato il film, rifacendolo tale e quale, sequenza per sequenza, incluso la spiritosa trovata dei cartelli in nero con nome e fede religiosa dei morti ammazzati, che sono tanti, essendo un noir macabro, sarcastico e feroce tra Tarantino e Kitano.
“Alcuni portano la felicità ovunque vadano. Altri quando se ne vanno”: il celebre aforisma di Oscar Wilde inaugura la storia a mo’ di esergo, e bisogna intendersi sull’andarsene, come avrete capito. Siamo a Kehoe, località turistica sulle Montagne rocciose, a circa 170 chilometri da Denver, dove il pacifico e taciturno Nels Coxman sta per ritirare il premio come “cittadino dell’anno” per aver gestito al meglio il servizio locale di spazzaneve. Ma il destino sta per dargli una mazzata. Il suo unico figlio, che lavora all’aeroporto, viene ritrovato morto stecchito per un’overdose sospetta. Il giovanotto, probo e gran lavoratore, non faceva uso di droghe: chi l’ha rapito e ucciso e perché?
Comincia così la sarabanda sanguinaria, anche piuttosto grandguignolesca, che porterà il “cittadino modello” a improvvisarsi giustiziere della notte e della neve, con un trascinamento a valanga di eventi; perché, a quel punto, anche i due boss locali della droga, il fighetto-vegano “Vichingo” e il roccioso indiano White Bull, finiranno con farsi la guerra non capendo bene che cosa stia succedendo.
Tra una sparatoria e l’altra, mentre echeggiano le note della leggendaria “Apache” degli Shadows e “Il signore delle mosche” viene indicato come manuale di pedagogia, i balordi filosofeggiano un po’ alla maniera di “Pulp Fiction”, e su tutto spira un’aria sorniona, esagerata, immorale, col testosterone a palla mentre le donne, creature più intelligenti, si defilano dalla resa dei conti in stile OK-Corral nei pressi della rimessa innevata.
Il 66enne Liam Neeson, ormai specializzato nel genere “revenge” grazie al ciclo nato con “Io vi troverò”, stavolta sta un po’ in disparte rispetto alla dinamica corale del film; il che non gli ha impedito, nel promuovere “Un uomo tranquillo”, di rivelare che anni fa andò in giro con una spranga di ferro, pronto a pestare qualsiasi nero che gli fosse capitato a tiro, per vendicare un’amica stuprata (poi, grazie a Dio, tornò in sé). Nel remake americano Neeson prende il posto dello svedese Stellan Skarsgård, che lì si chiamava Nils e non Nels, facendo suppergiù le stesse cose, un po’ maldestre e un po’ no, in attesa che tutti si massacrino a vicenda. Tom Bateman e Tom Jackson incarnano invece i due boss avversari, divisi da un odio anche antropologico destinato a esplodere nelle forme più fantasiosamente crudeli (se ricordo bene nell’originale uno dei due, detto “il Serbo”, era Bruno Ganz).
Michele Anselmi