L’angolo di Michele Anselmi
Si va a vedere ogni nuovo film di Woody Allen, e speriamo che questo “Rifkin’s Festival” non sia l’ultimo come in molti temono a causa del boicottaggio subito negli Usa, con una sorta di quieta e complice curiosità. Non sono tutti capolavori, s’intende, ma è ammirevole la capacità di questo cineasta, oggi 85enne, nel mantenersi su un invidiabile livello artistico: per scrittura, situazioni, storie, messa in scena, ambientazioni, allusioni, profondità. A prima vista “Rifkin’s Festival”, nelle sale dal 6 maggio con Vision Distribution, appartiene a quel filone “turistico” che non sempre ha portato fortuna al regista newyorkese (basterebbe pensare allo sgangherato “To Rome with Love”); certo i capitali spagnoli sono stati determinanti nella definizione del budget, accanto a quelli italiani, ma stavolta il contesto geografico appare funzionale alla vicenda, in una chiave di accettabile “complicità”.
Come forse sapete, tutto succede durante il festival cinematografico di San Sebastiano, un tempo molto seguito anche dalla stampa italiana. Nella ridente cittadina basca arrivano il settantenne Mort Rifkin e la moglie cinquantenne Sue: lui è un ex professore di cinema alle prese con la scrittura di un romanzo impossibile; lei è una piacente addetta stampa chiamata per curare l’immagine di un giovane regista francese engagé, Philippe, molto portato dalla critica. Naturalmente Mort sente odore di bruciato, gli appare subito evidente la tresca tra la consorte insoddisfatta e il pomposo parigino, ma decide di non fare scenate, anche perché nel frattempo si sta invaghendo di un’elegante medica spagnola, “Jo” Rojas, che studiò a New York e ora passa i suoi guai col marito pittore fedifrago.
Classica situazione “alleniana” da quartetto. E qui entra in gioco il cinema. In una chiave rischiosa, magari non proprio originale, ma ben orchestrata. Capita infatti che il povero Rifkin, pressato dagli eventi, sogni di “entrare” nei film della sua vita, s’intende tutti in bianco e nero. Classici come “Quarto potere” di Welles, “8 e ½” di Fellini, “Jules e Jim” di Truffaut, “Fino all’ultimo respiro” di Godard, “Un uomo, una donna” di Lelouch, “L’angelo sterminatore” di Buñuel, “Persona” e “Il settimo sigillo” di Bergman. La scelta è cinefila ma non troppo, in modo che il pubblico possa cogliere al volo le citazioni, pure sorriderci su. Naturalmente quei film, ricostruiti con elementi buffi o ironici, suggeriscono una lettura psicoanalitica, da cine-inconscio, dei patemi sofferti dall’ometto ebreo evidente alter-ego di Allen; e d’altro canto incipit ed epilogo vedono Rifkin di fronte a uno “strizzarcevelli”. Una domanda finale racchiuderà tutto il senso di quanto abbiamo visto e sentito.
Come spesso capita nelle commedie di Allen, che si parli di giovani, cinquantenni o anziani, lo sguardo sull’affannarsi dei sentimenti attinge a dinamiche universali, e anche qui, come nel precedente “Un giorno di pioggia a New York”, l’artificio della cine-parodia serve ad addolcire un po’ la pillola, in modo da riequilibrare il pessimismo senile sulla natura umana, le strettoie dell’esistenza, l’irresolutezza dell’amore, la paura delle malattie.
Wallace Shawn, Gina Gershon, Louis Garrel ed Elena Anaya sono i quattro attori protagonisti, rispettivamente nei ruoli di Mort, Sue, Philippe e “Jo”, tutti intonati all’atmosfera settembrina, anche in senso metaforico. In partecipazione speciale, Christoph Waltz si diverte a fare la Morte bergmaniana che gioca a scacchi con l’americano in riva al mare; e per ridere i discorsi finiranno sui grassi saturi da evitare e la colonscopia da non ritardare.
Una chitarra jazz alla Django Reinhardt fa da pimpante colonna sonora alla trasferta spagnola, mentre Vittorio Storaro si mette al servizio del regista senza strafare, ovvero restituendo con notevole cura la diversa grana dei bianco e nero evocati.
PS. Il film, leggo, non ha ancora una distribuzione americana, il che la dice lunga sulla condizione di odioso isolamento vissuta da Woody Allen nel proprio Paese.
Michele Anselmi