L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor

Cose che capitano: «Sopravvivere al collasso economico» strilla un manifesto di un gruppo neofascista attaccato su tutti i muri di piazza Vittorio, a Roma. La foto che accompagna l’invito alla mobilitazione sociale contro il governo Renzi ritrae Mel Gibson nei panni di Mad Max, ovvero Max Rockatansky, il pazzo guerriero post-apocalittico, da Medioevo prossimo venturo, che nacque al cinema nel 1979 con un film a basso costo chiamato da noi “Interceptor”. Australiano Gibson, australiano il regista George Miller, australiana l’ambientazione in chiave “distopica” (come dicono gli intelligentoni). Dato il successo planetario, seguirono altri due film, uno nel 1981 e uno nel 1985, sempre più fracassoni e con denari hollywoodiani; finché “Mad Max” divenne un genere, rugginoso e dai tratti cupamente allegorici, tanto da spingere un westerner come Kevin Costner a farsi male, al botteghino, con i kolossal “Waterworld” e “L’uomo del giorno dopo”, che brutti non erano ma arrivarono fuori tempo massimo.
Tre decadi dopo “Mad Max – Oltre la sfera del tuono”, che si ricorda soprattutto per la canzone “We Don’t Need Another Hero” intonata da Tina Turner, pure regina nel ruolo di Aunty Entity, il regista George Miller ha risuolato la serie, chiamando il roccioso Tom Hardy a sostituire Mel Gibson per raggiunti limiti d’età, e mettendo insieme uno spettacolone Warner Bros da 100 milioni di dollari. Funzionerà al botteghino “Mad Max – Fury Road”? Probabilmente sì. Passaggio a Cannes il 14 maggio e subito dopo uscita nelle sale di tutto il mondo, Italia inclusa.
La Terra Desolata è un po’ sempre la stessa, retrocessa a uno stadio primordiale, belluino, dove governa il deserto, l’acqua vale oro come la benzina, e il dittatore sfigurato Immortan Joe detta legge dall’alto della sua reggia con verde accluso e teschio scavato nella roccia. Lì approda, catturato e ridotto a donatore d’organi e sangue dai sudditi rasati, istoriati e dipinti di bianco in cerca del Walhalla, il solitario Mad Max, che non vorrebbe rotture di scatole (ha già i suoi incubi familiari con i quali fare i conti) e invece… «Sono colui che fugge sia dai vivi sia dai morti. Sperare è sbagliato» sentenzia il ribelle senza causa, al quale i cattivissimi warboy piazzano in faccia una maschera di ferro che somiglia a quella di Bane, l’arcinemico di Batman incarnato proprio da Hardy.
Solo che “Mad Max – Fury Road” mette subito da parte l’eroe in cartellone per dare tutta la scena all’imperatrice Furiosa, cioè Charlize Theron, l’amazzone guerriera senza un braccio e dalla fronte dipinta di nero, decisamente una femmina Alfa, che scappa dalla Cittadella su una cisterna da combattimento, nascondendo in essa belle ragazze destinate ad accoppiarsi col feroce tiranno per dargli dei figli. La storia è tutta qui: un doppio viaggio avanti e indietro nel deserto, una sorta di “incudine del sole”, nel corso del quale Max e il redento warboy Nux combattono accanto a Furiosa e le sue donne contro ogni tipo di insidie e nemici, ritrovando il senso della pietà, il valore della giustizia.
Non è una novità, specie nel cinema western, da “Donne verso l’ignoto” di William Wellman alla miniserie tv “Broken Trail” di Walter Hill, senza dimenticare il recente “The Homesman” di Tommy Lee Jones; ma naturalmente Miller non va per il sottile con le psicologie e le dinamiche emotive, gli interessa orchestrare uno show pirotecnico e ferino, bombardato di musica heavy metal, sparatorie, esplosioni, dove le vere star diventano le fantasiose auto da combattimento costruite per resistere a ogni scontro, fare più male possibile. Dopo un po’ ti chiedi quando comincia il film, ma forse è un’annotazione senile, anche l’ultimo “Fast & Furious” non concede un attimo di tregua allo spettatore, limitandosi a piazzare qualche battuta-sentenza tra una rodomontata rovinosa e l’altra.
Il futuro è donna: pare questa la morale, e sai la novità. Per rendere più esplicito il messaggio, il regista mostra anche una vecchia guerriera raggrinzita che custodisce una preziosa borsa piena di semi, semini, sementi, piantine. Ma certo il punto di forza del film, tra citazioni da certe fotografie di Salgado e scenari da carestia terzomondista, sta tutto nell’invenzione estetica di questo mondo tribale e barbarico, ma anche tecnologico, dove comanda chi possiede l’acqua, le pallottole e il petrolio.
Charlize Theron ha il fisico del ruolo e un notevole sex-appeal, anche col braccio meccanico, infatti oscura l’eroe taciturno e musone titolare della serie. D’altro canto Tom Hardy parlava tanto in “Locke”…

Michele Anselmi