La Mostra di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor
Sarà di sicuro un caso, o magari no. Di fatto entrambi i film in concorso oggi debbono qualcosa allo scrittore argentino Jorge Luis Borges (1899-1986): citato, evocato, letto, parafrasato. Il migliore dei due, a parere di chi scrive, è “El ciudadano ilustre”, firmato dagli argentini Mariano Cohn e Gastón Duprat e accolto dagli applausi più caldi finora sentiti alle proiezioni per la stampa.
Il cittadino illustre del titolo, ossia destinatario di una cittadinanza onorario per chiara fama, è uno scrittore sessantenne, piuttosto scorbutico e annoiato, tale Daniel Mantovani. Ha vinto un Nobel anni prima, scioccando la platea svedese con un discorso del tutto irrituale ancorché sincero; e adesso, in crisi creativa ma sempre corteggiato, dalla sua sontuosa casa spagnola non fa altro che negarsi a premi, conferenze, occasioni pubbliche. Annulla tutto, nella disperazione della sua segretaria-agente. Forse prova ad essere “invisibile”, solo una lettera sembra scuoterlo dal torpore. Viene da Salas, la cittadina a 750 chilometri da Buenos Aires da dove partì, senza più tornare, una quarantina d’anni prima, ma scrivendo sempre e solo di quel posto infisso nella memoria. Lo invitano ad attraversare l’oceano per conferirgli, appunto, la cittadinanza onoraria, e lui accetta.
Strano film “El ciudadano ilustre”, in bilico tra commedia di costume e apologo letterario, con tratti farseschi che tendono al nero, dentro una costruzione drammaturgica che forse sarebbe piaciuta ai nostri Risi, Scola e Monicelli. Si ride parecchio, specie nei primi capitoli, e tuttavia via via affiora un’atmosfera che da buffa diventa allarmante, infine minacciosa, con un fucile pronto a sparare.
È straordinario l’attore Oscar Martinez nel disegnare questo scrittore cosmopolita, raffinato, esigente, anche sarcastico, che si fa risucchiare nel mondo da cui proviene, in bilico tra curiosità e tedio. Ma che qualcosa andrà storto appare subito chiaro: lo vanno a prendere all’aeroporto con una sgangherata Fiat Duna e subito, nel mezzo del nulla, si buca una gomma, a Salas lo piazzano in un alberghetto che sembra uscire dalla Romania di Ceausescu, e subito viene proiettato, al pari di una Madonna pellegrina, in un vortice di impegni piuttosto imbarazzanti.
In fondo è una celebrità nazionale, lo scrittore che ha vinto il Nobel sempre negato a Borges. Ma sotto quella crosta di applausi, selfie e regali cova uno strano rancore nei confronti del cittadino illustre, paragonato nel primo discorso del sindaco – scena molto divertente – a Maradona, il Papa, Messi e la regina d’Olanda.
Barbuto e sempre più perplesso di fronte alla grettezza che avverte attorno a sé, Mantovani rivede la fidanzatina di un tempo oggi sposa infelice di un boss locale della carne, si ritrova nel letto la di lei figlia sbarazzina senza ovviamente immaginarlo, infine comincia a pestare calli, a non premiare dei pittorucoli locali, a respingere qualche invito a cena. Meglio fare le valigie, prima che tutto degeneri.
Pur venendo dalla video arte e dal cinema sperimentale, Cohn e Duprat impaginano una commedia agra che funziona proprio per lo stile semplice, piano, sottilmente allusivo, con affondi comici da “Benvenuti al Sud”, ma senza proponendo uno sguardo più alto, tra il rassegnato e il pessimista, sulla natura violenta dell’Argentina. Speriamo che qualcuno l’acquisti per l’Italia.
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Uscirà invece il 22 settembre “Spira mirabilis”, il primo titolo italiano in gara, definito dagli autori, i sofisticati documentaristi Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, «un film contemplativo che cerca di toccare “il cuore del cuore delle cose in modo che da una pratica di osservazione nasca una trasfigurazione del reale». Vabbè. I 121 minuti sono parecchio faticosi. E, senza nulla togliere alla raffinata cine-partitura sul tema dell’immortalità attraverso gli elementi della natura, resta un po’ oscuro il senso dell’impresa. Francamente ho dovuto leggere il press-book per capire. Leggiamo insieme?
«La terra: le statue del Duomo di Milano sottoposte a una continua rigenerazione. L’acqua: Shin Kubota, uno scienziato cantante giapponese che studia la Turritopsis, una piccola medusa immortale. L’aria: Felix Rohner e Sabina Schärer, una coppia di musicisti inventori di strumenti/scultura in metallo. Il fuoco: Leola One Feather e Moses Brings Plenty, una donna sacra e un capo spirituale, e la loro piccola comunità lakota da secoli resistenti a una società che li vuole annientare.
L’etere: Marina Vlady, che dentro un cinema fantasma, ci accompagna nel viaggio narrando “L’Immortale” di Borges».
Sarà pur vero, come scrive il sommo scrittore argentino, che «accettiamo facilmente la realtà, forse perché intuiamo che nulla è reale», però al cinema, anche in un festival d’arte cinematografica, si gradirebbe qualcosa di meno astruso e più commestibile.
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A un cinema classico che vuole farsi amare ci ha riportato subito Mel Gibson con il potente “Hacksaw Ridge”, messo fuori concorso, che segna il suo ritorno alla regia a dieci anni da “Apocalypto”. Spesso liquidato con faciloneria come un cine-barbaro, un fanatico cristiano, un uomo fuori controllo, il 61enne Gibson racconta invece con forte senso dello spettacolo e onestà morale la storia vera di Desmond Doss, il primo obiettore di coscienza dell’esercito americano insignito della Medaglia d’onore del Congresso.
Giovane contadino delle Blue Ridge Mountains in Virginia e devoto membro della Chiesa avventista del Settimo Giorno, Doss si arruolò per andare a combattere i giapponesi dopo Pearl Harbor. Ma “combattere” non è la parola giusta: risoluto a non uccidere mai e quindi neanche a imbracciare il fucile, il giovanotto fu irriso, apostrofato come vigliacco, pure incarcerato. Ebbe la meglio. Finì paracadutato come ausiliario della Croce rossa nell’inferno di Okinawa, battaglia decisiva per vincere la guerra, e lì salvò in una notte terribile 75 commilitoni feriti destinati ad essere uccisi dai giapponesi.
Un eroe pacifista, un uomo di saldi valori, un soldato sui generis, che Andrew Garfield disegna con impeccabile spirito americano; mentre Gibson, alla regia, mostra, con stile accurato, un po’ di retorica e qualche compiacimento, la ferocia della guerra, fino quasi a farci sentire l’odore del sangue.
Michele Anselmi