L’angolo di Michele Anselmi 

C’è del vero in quanto dice Sergio Castellitto: il suo cranio rasato per davvero, l’opulenza suggestiva e decadente del Vittoriale, le battute di dialogo desunte da documenti e carteggi, be’ tutto ciò contribuisce a fare del film “Il cattivo poeta” un’opera prima di notevole spessore. Un debutto tardivo, fors’anche per questo meditato. Il regista e sceneggiatore Gianluca Jodice, napoletano, 47 anni, custodisce studi di filosofia e ha scelto con cura, pure con una certa audacia, l’argomento in questione, cioè gli ultimi anni di vita di Gabriele D’Annunzio (1863-1938); sì il poeta “immaginifico”, detto anche carduccianamente “il Vate”, l’autore di libri come “Il piacere” e “L’innocente”, l’inventore di parole come “fusoliera” e “tramezzino”, il controverso comandante dell’impresa di Fiume, l’esteta vizioso e cocainomane a lungo legato al fascismo italiano benché fosse nota la sua rivalità quasi antropologica prima che politica nei confronti di Mussolini.
“Il cattivo poeta” non è quindi una cine-biografia, bensì un punto di vista crepuscolare sull’ultimo pezzo di vita di D’Annunzio, forse il più malinconico e scorticato, in una chiave che può ricordare, nel sentimento evocato e nelle dinamiche psicologiche, “Hammamet” di Gianni Amelio o “N – Io e Napoleone” di Paolo Virzì.
Che cosa fa infatti Jodice? Parte dal 1936, sulle note impertinenti della canzoncina “Ma cos’è questa crisi?” di Roberto De Angelis, per rievocare lo strano incontro tra l’appena nominato federale di Brescia, il giovane Giovanni Comini, e il 74enne poeta da anni “esiliato” nella lussuosa dimora di Gardone Riviera, quasi un mausoleo, una sorta di sito “archeologico”, sotto l’occhiuto controllo del Regime che non lo ama più e anzi diffida di lui.
Tre donne di varia età, Luisa, Amélie e Emy, si prendono cura dell’infiacchito eroe di guerra, a volte trastullandolo nei suoi sfizi sessuali, il fedele architetto Giancarlo Maroni svolge un ruolo da segretario, mentre l’ambiguo commissario Rizzo ha l’obbligo di spiarlo vivendo nella stessa sontuosa dimora. Solo che D’Annunzio, che pure fu fascista, è ancora visto a Palazzo Venezia come una voce fastidiosa, dissidente, specie ora che si profila il patto nefasto con Hitler, da lui definito “quel ridicolo nibelungo travestito da Charlot”. Sicché Comini, a suo modo un ottuso idealista incapace di fare i conti con la ferocia dei suoi squadristi torturatori, viene incaricato di controllare ancora più fa vicino l’uomo del Vittoriale, perché non dica e faccia cose “imbarazzanti”. Starace glielo dice chiaro e tondo: “D’Annunzio è come un dente guasto. O lo si ricopre d’oro o lo si estirpa”.
Il film, racchiuso nell’arco temporale del biennio 1936-1938, ricostruisce l’inatteso legame, un po’ paterno e un po’ filiale, che si sviluppa tra i due uomini: l’uno anziano, irascibile e ormai rassegnato; l’altro giovane, inebriato e già un po’ sconfitto.
“Io sono vecchio e i vecchi amano solo la loro sopravvivenza. Per fortuna non sono gobbo come il recanatese” filosofeggia il poeta sempre in divisa, riferendosi a Leopardi, durante una delle sue passeggiate nel fiorito giardino del Vittoriale, sopra quel lago di Garda dove tutto “è di un azzurro vitreo e cristallino”. Si direbbe che l’Infinito non faccia più parte del suo orizzonte, ormai vede topi dappertutto, e anche le camicie nere del fascismo gli appaiono solo come “sordide”.
Ben illuminato da Daniele Ciprì, non a caso lo stesso direttore della fotografia di “Vincere”, il film di Jodice si inoltra con una certa finezza, e qualche rara sottolineatura di troppo, nelle contraddizioni del giovane federale, il quale finirà col rispecchiarsi almeno un po’ negli occhi stanchi dell’esausto poeta, specie dopo un evento luttuoso che lo metterà in crisi (il vero Comini alla fine dei giochi fu espulso dal Partito).
Si vede che Castellitto, esibendo un misurato istrionismo vocale e gestuale, s’è cucito addosso il personaggio di D’Annunzio, colto in un momento cruciale dell’esistenza, quando neanche la “polverina bianca”, il ventre e i seni delle fanciulle, il saluto commosso dei veterani di Fiume riescono più a dargli una ragione per vivere. Francesco Patané incarna con misura il suo deuteragonista, o forse il vero protagonista della storia, cioè Comini, affascinato dal potere racchiuso nella divisa da Federale e tuttavia consapevole della china tragica presa dagli eventi. Ma tutta la composizione del cast appare ben congegnata nella ripartizione dei ruoli: da Tommaso Ragno a Massimiliano Rossi, da Fausto Russo Alesi a Lino Musella, da Elena Bucci a Clotilde Courau.
Nelle sale da giovedì 20 maggio in 200 copie con 01-Raicinema, il film è coprodotto per la parte maggioritaria italiana da Matteo Rovere e Andrea Paris, e immagino che non sia stato facile mettere insieme il tutto, benché gli autori si siano subito assicurati la complicità dello storico Giordano Bruno Guerri, presidente della Fondazione che amministra il Vittoriale degli italiani.
PS. Ricordo che solo pochi giorni fa, a Trieste, alcuni giovani vandali hanno imbrattato con vernice gialla la statua dedicata a un pensoso D’Annunzio. La “damnatio memoriae” a scoppio ritardato?

Michele Anselmi