L’angolo di Michele Anselmi 

Un’altra educazione criminale, l’ennesima, tra felpe rigorosamente Adidas, cappucci in testa, case colorate/sgarrupate di Ponte di Nona, vecchie Panda, piccoli clan malavitosi, madri disperate in cerca di soldi, dialetto romanesco spinto. Questo è “La terra dell’abbastanza”, il cui titolo piuttosto allusivo gioca e fa rima in chiave di malinconico contrasto con quello di un vecchio film di Wim Wenders, appunto “La terra dell’abbondanza”. Scritto e girato dai due registi gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo (29 anni), esce giovedì 7 giugno dopo un passaggio alla Berlinale nella sezione “Panorama”. Produce la Pepito, distribuisce la Adler.
I due fratelli, che si definiscono artisticamente “materici e concreti”, sono cresciuti nella stessa “periferia umanistica” (?) dalla quale provengono i protagonisti della vicenda, e naturalmente ringraziano, pur lesti a schermirsi, per essere stati paragonati al Matteo Garrone di “Gomorra” o al Claudio Caligari di “Non essere cattivo”. Di sicuro hanno elaborato un linguaggio visivamente forte, nervoso e poetico allo stesso tempo, fatto di panorami desolati e interni giallastri, primi piani espressivi e dialoghi smozzicati “presi dalla vita”; tuttavia, a dirla tutta, si sente che il copione è stato scritto in due settimane. Si sente perché la parabola amara è abbastanza prevedibile, a parte un colpo di scena in sottofinale che per molti versi sigla la fine di un “sogno”, per quanto deturpato e violento.
Andrea Carpenzano e Matteo Olivetti sono Manolo e Mirko, due diciottenni dell’estrema periferia. Manolo ha solo il padre a occuparsi di lui, Mirko solo la madre. Tutti hanno bisogno di soldi per tirare avanti, e l’opportunità si presenta nel modo più inatteso. Tornando a casa in auto a notte fonde, distratti dalla loro chiacchiera sul niente, i due investono e uccidono un passante. Scappano. Vogliono solo cancellare quel ricordo. Ma presto scoprono di aver ammazzato un pentito, “un infame” inseguito dal clan dei Pantano. Insomma, l’incidente diventa una medaglia, sicché i due, introdotti negli affari sporchi del piccolo gruppo criminale, si guadagnano velocemente i galloni di killer. Prima fanno fuori un “marocchino” dalle parti della stazione Termini, poi sparano alle spalle a un commerciante, infine sono introdotti alle cene del boss. Diventano manovali della malavita, riforniscono d’acqua, preservativi e caramelle le prostitute al servizio del clan, nulla sembra metterli in crisi, neanche un losco giro di pedofilia o quasi. Quanto potranno durare? Fino a quando i regali e i soldi che portano a casa saranno “abbastanza”?
Il contesto sociale è ulcerato, tutti urlano molto, le parolacce sono colorite, un senso di tragica ineluttabilità permea “il romanzo di formazione” di questi due pischelli che non impiegano molto, nel vuoto in cui sono immersi, a passare da un delitto occasione al mestiere di sicari professionisti. Essendo cani sciolti, senza regole, gasati, quindi facilmente manovrabili dagli adulti. Però il film è attento a non mostrare mai i visi delle vittime, ogni “esecuzione” è risolta senza compiacimento.
Non saprei dire se “La terra dell’abbastanza” sia un film sull’appiattimento delle coscienze, sull’assenza colpevole dei genitori, sul venire meno di ogni scrupolo morale, sulla noia che pervade e anestetizza. Non si può parlare neanche di “rabbia giovane”, per citare un famoso titolo di Terrence Malick: perché Mirko e Manolo, nel loro scivolare feroce verso l’inferno sia pure con modalità personali diverse, mostrano a tratti lampi di resipiscenza. Solo che si sono spinti troppo avanti per fermarsi.
A fare da coro ai due giovani interpreti, abbastanza bravi nei rispettivi ruoli di “coattelli” spavaldi ma fregati dal contesto, ci sono Luca Zingaretti, Milena Mancini e Max Tortora, ovvero il boss cinico, la madre scorticata e il padre irresponsabile.

Michele Anselmi