La Mostra di Michele Anselmi | 12

Piove di brutto sulla Mostra già vuota. Purtroppo non sono piovuti capolavori sulle ultime giornate di questa 76ª edizione che si chiude domani, sabato 7 settembre, con la premiazione. Sarà perché tutti i colpi migliori sono stati tutti sparati nei primi cinque-sei giorni, poi s’è imposta una stanca routine, da due o tre stellette al massimo.

Era però lecito aspettarsi di più da “La mafia non è più quella di una volta” di Franco Maresco, terzo titolo tricolore in gara. Cinque anni dopo “Belluscone. Una storia italiana”, il cineasta palermitano utilizza lo stesso stile da finto documentario, tra antropologico e grottesco con una punta di cinismo sornione, ambientando il suo film nel luglio 2017, nel venticinquennale delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Da un lato c’è Letizia Battaglia, la temperamentosa fotografa ottantenne dai capelli rossi che ha documentato nei decenni infinite guerre di mafia; dall’altro c’è Ciccio Mira, che organizza feste di piazze “legali e illegali”, e custodisce, nel suo fumoso dire e non dire, un certo spirito palermitano nei confronti del mondo mafioso. Maresco provoca entrambi coi suoi interventi vocali, e si direbbe che nulla sia lasciato all’improvvisazione, anche nei siparietti, i più apprezzati, sull’omertà.

Lo spunto paradossale viene da un concerto di cantanti neomelodici allo Zen, per ricordare le figure di Falcone e Borsellino, organizzato proprio da Mira e dal suo socio Matteo Mannino. Sembra una cosa innocente, solo kitsch, ma un “picciotto” si fa vivo con una larvata minaccia. Da lì si diparte la seconda metà del film, che divaga un po’, tirando in ballo, in una curiosa chiave di animazione, anche la “palermità” del presidente Mattarella, si direbbe accusato, pure lui, di non parlare sulla trattativa Stato-mafia.

Ogni tanto si sorride, soprattutto con le facce e le battute di Mira, ormai un consumato attore, essendo già presente in “Belluscone. Una storia italiana”; e se risulta chiaro lo scetticismo ironico dell’autore nei confronti di una certa retorica anti-mafia, si vorrebbe dal film, comunque applaudito dai festivalieri e in uscita con il Luce, uno sguardo più profondo, sostanzioso, meno allusivo, non solo un catalogo di sketch.

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Si mira alla Grande Metafora, invece, con “Aspettando i barbari”, sempre in gara qui al Lido. Scritto nel 1980, il romanzo del sudafricano John Maxwell Coetzee ha impiegato quasi quarant’anni per trovare forma sullo schermo, grazie al regista colombiano Ciro Guerra e al coproduttore di maggioranza Andrea   Iervolino (il film batte bandiera italiana).

Siamo in uno sperduto avamposto di un impero ottocentesco non meglio definito, ma viene da pensare, per i paesaggi e le divise, a “Il deserto dei tartari”. La vita scorre quieta in quel fortilizio dimenticato da tutti, amministrato con saggezza da un colto funzionario che teorizza la pacifica convivenza con i nomadi. Ma il bieco colonnello Joll, spedito dal centro, ha deciso che “i barbari” stanno per attaccare e quindi bisogna uccidere, torturare, depredare per dare una lezione. Il magistrato si oppone a quella stretta feroce, si prende cura anche di una mongola che è stata orrendamente seviziata, forse l’ama, tanto da restituirla al suo popolo, passando quindi per traditore.

Diviso per capitoli, uno per stagione, “Aspettando i barbari” ha un andamento lento, meditabondo, salvo accensioni di crudeltà estrema, quasi a dirci che è il colonialismo, a colpi di brutalità, a creare il nemico che lo distruggerà. Cast di prim’ordine, con Mark Rylance nel ruolo dello stoico magistrato, mentre Johnny Depp e Robert Pattinson incarnano, nelle loro divise nere, il tronfio fanatismo militare destinato allo sconfitta. Occhio all’ultima inquadratura.

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Almeno un merito bisogna riconoscerlo a “Tutto il mio folle amore”, il nuovo film di Gabriele Salvatores accolto fuori concorso alla Mostra: aver rilanciato una splendida canzone del 1971, quel “Vincent” scritta dall’americano Don McLean, facendone il carezzevole leit-motiv musicale. Il Vincent in questione era Van Gogh, ma Salvatores applica il contrasto tra la bellezza delle sue tele e l’ottusità dei suoi contemporanei alla malattia, l’autismo, di cui soffre sullo schermo il sedicenne Vincent, protagonista della storia liberamente desunta dal romanzo di Fulvio Ervas “Se ti abbraccio non aver paura” (Marcos y Marcos, 2012).

Se sulla pagina scritta scorre il lungo viaggio americano di un padre e un figlio veri, Franco e Andrea Antonello, il film si distacca dalla realtà dei fatti e trasporta l’avventura picaresca tra i paesaggi brulli della Slovenia e della Crozia. Siamo in zona Kusturica e Salvatores non teme di evocare, con citazioni affettuosamente dirette, il mondo poetico/gitano del regista serbo-bosniaco: tra poppute ragazze del circo, ex soldati depressi, tristi sale da ballo in stile anni Cinquanta, hotel per ricchi, canzoni italiane d’antan (il titolo, “Tutto il mio folle amore”, viene da un verso della struggente canzone “Cosa sono le nuvole”, musica di Modugno, testo di Pasolini).

Non a caso Claudio Santamaria incarna Willi, “il Modugno della Dalmazia”, un cantante di feste e matrimoni che sbarca il lunario conciato come il celebre Mimmo. L’uomo è un irregolare, pure un irresponsabile; infatti sedici anni prima abbandonò incinta la bella Elena, ossia Valeria Golino, la quale ha tirato su da sola il piccolo Vincent, rivelatosi presto “strano”. Oggi lei vive in Friuli Venezia Giulia col facoltoso editore Mario, cioè Diego Abatantuono, il quale ha adottato volentieri il ragazzo, nonostante le intemperanze. Solo che Vincent, bello, innocente, inafferrabile, a suo modo unico, s’è nascosto nel fuori strada di Willi e a quel punto la scappatella si trasformerà in una fuga senza meta, anche mentale, di reciproca scoperta. Mentre Elena e Mario, preoccupati, si mettono a loro volta all’inseguimento.

Il tutto in una chiave da road-movie tra buffo e sentimentale, ricolmo di canzoni, troppe, e di riferimenti espliciti alle traversie dei migranti in fuga dalle guerre (Umberto Contarello e Sara Mosetti firmano il copione).

Salvatores lo conoscete: ormai quasi settantenne, fa un cinema di piglio generazionale, lineare con qualche accensione d’autore, nelle ambizioni un po’ rock, nel quale, tra una citazione da Cheever e una da Poe, un omaggio a “La forma dell’acqua” e uno a “Rain Man”, rispecchia – si direbbe – il tema della paternità mancata. Dopo il dittico sul “Ragazzo invisibile”, ecco infatti un altro adolescente “difficile”, che sovverte l’ordine delle cose, anche se l’esordiente Giulio Pranno nel ruolo di Vincent esagera nell’esuberanza. La morale? Sta sulla scritta sui titoli di testa: “La struttura alare del calabrone non è adatta al volo, ma lui non lo sa e vola lo stesso”. Parola, forse, di Albert Einstein.

Michele Anselmi