L’angolo di Michele Anselmi
Il titolo evoca “Lassù qualcuno mi ama”, il bel film del 1956 con Paul Newman nel ruolo del pugile Rocky Graziano, ma l’allusione finisce qui. Con “Laggiù qualcuno mi ama” ci si immagina che dal paradiso degli artisti Massimo Troisi sorrida quieto, osservando quanto affetto circondi ancora la sua persona. Dopo l’anteprima odierna al festival di Berlino, il documentario, targato Medusa, esce nelle sale in due fasi: domenica 19 febbraio, in 200 copie, per i 70 anni esatti dalla nascita del comico di San Giorgio a Cremano, e giovedì 23 febbraio, in 400 copie, per un pubblico più vasto.
Naturalmente quello firmato da Mario Martone è qualcosa di più, di meglio, di un semplice omaggio. Il film dura più di due ore, è stato prodotto con ampiezza di mezzi, fotografia di Paolo Carnera e montaggio di Jacopo Quadri, si avvale di materiale inedito e di interviste riuscite, soprattutto viene costruito dal regista napoletano, che fu amico del comico, sul filo di un’intuizione, non so quanto pertinente ma di sicuro originale: il cinema di Troisi come una variazione della Nouvelle Vague francese, il suo “personaggio” come una costante proiezione autobiografica simile all’alter-ego rappresentato da Antoine Doinel per François Truffaut. “Il suo cinema era bello perché aveva la forma della vita” teorizza Martone, subito dopo la sequenza iniziale presa da “Splendor” di Ettore Scola, mentre partono le note di “Io so’ pazzo” di Pino Daniele.
In realtà, tra mostre, celebrazioni, spezzoni, rassegne e rivelazioni (c’è un altro documentario in giro, “Il mio amico Massimo” di Alessandro Bencivenga), si potrebbe pensare di sapere già molto, se non tutto, sulla parabola in fondo breve di un artista morto appena 41enne, il 4 giugno del 1994, lentamente ucciso da un cuore debilitato. Invece Martone, dopo un prologo un po’ troppo piegato sul personale, per i miei gusti, sa estrarre un ritratto sfaccettato e toccante, sempre a ciglio asciutto.
“Era divertente ma straziante” dice lo sceneggiatore Francesco Piccolo. “Era meraviglioso nel suo procedere con lentezza” annota Paolo Sorrentino. E sono solo due delle tante testimonianze che compongono il film: da Anna Pavignano, che fu compagna amorosa e sodale di sceneggiatura, al critico Goffredo Fofi, dal montatore Roberto Perpignani al regista Michael Radford, da Ficarra e Picone ai cinefili Federico Chiacchiari e Demetrio Salvi, autori della prima monografia, 1991, su “Troisi, il comico dei sentimenti” (ricordo la copertina rosa, ce l’ho ancora da qualche parte).
Troisi fu comico e “malincomico”, secondo l’azzeccata formula di Stefano Reggiani, poi estesa agli altri tre neo-colonnelli della risata, ovvero Roberto Benigni, Francesco Nuti e Carlo Verdone. La salute periclitante che consigliava lentezza dei movimenti, una certa indolenza napoletana contraddetta dai ritmi di lavoro e dalla serietà nello studio, quell’insieme di gesti così tipici, a partire dal dito indice passato come un tic sul sopracciglio destro: tutto confluì nei film di Troisi, sia in quelli scritti e interpretati da lui, sia in quelli diretti da altri.
“Odiava gli attori napoletani che fanno tutto esagerando, detestava una certa allegria forzata” ricorda Scola in un’intervista di repertorio. Tra il regista irpino e l’attore campano, tutti e due sbarcati con successo a Roma, nacque una collaborazione intensa, quasi padre/figlio, che si concretizzò in tre film, appunto “Splendor”, “Che ora è” e “Il viaggio di Capitan Fracassa”.
Naturalmente Martone prende il discorso alla lontana, dall’infanzia piccolo-borghese a San Giorgio a Cremano, per risalire via via, citando spettacoli teatrali, film e incontri di vita, verso quel doloroso testamento spirituale che fu “Il postino”, uscito postumo, dove lui appare così scavato in viso, sfiatato, esausto per la fatica delle riprese.
Francamente non mi pare, come invece sostiene Martone, che “Troisi non fu compreso dalla critica e lui ne soffriva”. Sin dal suo folgorante debutto con “Ricomincio da tre”, titolo paradossale e riuscito, apparve subito chiaro a tutti noi “cine-scribi” come l’ex animatore del trio La Smorfia possedesse una marcia in più. Un mix fatto di acuta osservazione della realtà, sistematica demolizione di cliché meridionali, autobiografismo buffo dai tratti universali, eleganza distratta nella messa in scena. Lo confermano i folgoranti e ingialliti bigliettini che riemergono da una cartella di Anna Pavignano: appunti per battute e situazioni, letti da attori come Toni Servillo, Silvio Orlando, Teresa Saponangelo, Pierfrancesco Favino e altri ancora.
Aveva ragione Troisi, l’uomo dal cuore fragile. “La morte e la sorte sembrano due parole quasi uguali”, ma in realtà non fanno rima.
Michele Anselmi