L’angolo di Michele Anselmi
Capita sempre più spesso a Valerio Mastandrea di incarnare personaggi che si misurano con la morte, anche ravvicinata. Penso a “La linea verticale” per la tv, a “The Place” o “Euforia”, al prossimo “Domani è un altro giorno”. L’attore romano, classe 1972, è uno di quelli che non si tira indietro, non “rimuove” l’argomento scomodo, semmai l’affronta con una certa spavalderia, sia pure mista a una sorta di trattenuto languore.
Succede anche nel suo primo lungometraggio da regista, “Ride”, appena passato in concorso al festival di Torino e da giovedì 29 novembre nelle sale con 01-Raicinema. Il film, scritto insieme ad Enrico Audenino, parte da un piccolo paradosso che il regista riassume in questa frase: “Negli anni della ricerca costante della felicità dobbiamo anche chiedere il permesso per stare male come si deve”. Non saprei dire se sia vero, ma così la vede “Ride”, il cui titolo, schietto ed efficace, presto assume la coloritura di un rimprovero morale.
Siamo a Nettuno, sul litorale laziale. Una giovane madre e un bambino di dieci anni parlano mentre fanno colazione, ripresi di lato a camera fissa. L’argomento? Un funerale. Una settimana prima è morto un operaio, il trentacinquenne Mauro Secondari, durante un turno di notte; e adesso i due, rimasti soli, devono prepararsi alla cerimonia funebre del giorno dopo. Ci saranno tv locali, giornalisti, autorità, perché s’è trattato di una “morte bianca”, ma Carolina e Bruno non sembrano sconvolti più di tanto. Perché?
Lei fatica a sprofondare nello strazio, non riesce a piangere, appare calma, lucida, vagamente attonita, capace di rassicurare gli altri, perfino la prima fidanzata del defunto; lui vorrebbe indossare la tuta nera del Borussia per le esequie e intanto medita di far colpo su una ragazzina recitando la parte di un telecronista in erba.
Nello scorrere della giornata affiorano altri punti di vista su quella morte sventata, forse provocata da un abbassamento delle norme di sicurezza. Cesare, il vecchio padre di Mauro, accoglie due suoi amici, come lui ex operai della fabbrica, per una malinconica spaghettata in riva al mare; l’altro figlio, Nicola, si rifà vivo da chissà dove con un volto truce e una pistola nella giacca; una signora anziana, Ada, rifà il trucco a Carolina dicendole che “non si deve smettere di essere una donna perché ti è morto il marito”.
La giornata di maggio è calda, assolata, anche se qualcuno parla di una “bomba d’acqua” in arrivo. Ma qualcosa cambierà nel corso delle ore, tra confessioni ulcerate e rese dei conti, a mano a mano che si avvicina il lunedì mattina.
Per Mastandrea “il rapporto col dolore è il vero dramma dei nostri giorni: è definito, quasi per legge, dalla morale del momento, la più sostenuta, la più cliccata, la più condivisa”. La morte sul lavoro, scelta non a caso dal regista sensibile ai temi sociali, è però solo uno spunto per impaginare una danza macabra sospesa tra affondi buffi, impennate surreali e riflessioni asprigne. Al centro del racconto sta l’espressione enigmatica di Carolina, stanca di subire l’indignazione altrui perché ride, o comunque non piange, e tuttavia incapace di aderire al ruolo della vedova inconsolabile.
Purtroppo il film, che parte benissimo, spiazzando lo spettatore, poi risulta un po’ ondivago nello stile, incerto tra realismo proletario e suggestione onirica, decisamente stonato nella digressione noir, da “romanzo criminale” alla Claudio Caligari. Ma di sicuro non è un esordio convenzionale.
Chiara Martegiani, Arturo Marchetti, Renato Carpentieri, Stefano Dionisi e Milena Vukotic, per restare agli interpreti principali, incarnano rispettivamente la vedova, il figlio, il padre, il “balordo” e la signora dei trucchi. Tutti aderiscono al tono suggerito dal neo-regista, un po’ da commedia funebre, se la formula non suonasse irriverente, tra ricercatezze formali, canzoni come “E sei così bella” di Ivan Graziani resuscitata per l’occasione e battute così così. Come quando Carolina, di nuovo alle prese con le lacrime che non vogliono scendere, protesta: “Ci sono anche malattie belle lunghe, dove uno si prepara, trova la fede”.
Michele Anselmi