Quando Paolo Virzì si siede nella sala Deluxe della Casa del cinema di Roma – ieri, mercoledì 25 maggio – per la “masterclass” («sembra un corso per fare le lasagne»), promette di rispondere anche alle domande più insensate. Effettivamente viene subito messo alla prova: il direttore della Casa del Cinema, Giorgio Gosetti, chiede se ci sarà un seguito di Ferie d’Agosto. La risposta arriva (negativa), e il microfono va al pubblico per le domande.
Subito ne viene fatta una parodistica, sullo stampo della prima: «Farai il sequel di Ovosodo?». La platea ride divertita, e anche Virzì la incalza, suggerendo al suo interlocutore di farlo lui stesso, il sequel. Stranamente, la terza domanda è uguale alle prime due: «Tu sei un grande maestro del cinema. Farai un proseguo di questo film?». A farla è un ragazzo basso con la macchina fotografica, che poco prima era al bar e faceva su e giù, parlando da solo. Le risate arrivano anche per lui, ma sono derisorie. Allora Virzì chiede, stranito: «Ancora? Ma cosa sta succedendo?».
Stava succedendo qualcosa di strano, effettivamente: una domanda fuori luogo. Una “dissonanza”, un gesto imbarazzante. Come la dissonanza che percepisce il pubblico quando, in La pazza gioia, Beatrice (Valeria Bruni Tedeschi) indossa l’abito da sposa di quand’era ragazza e si presenta così vestita a un aperitivo informale a bordo piscina. Alla masterclass, Virzì rivela che la scena è realmente accaduta: durante le riprese del film, una vera paziente bipolare scopre che nel suo centro di riabilitazione “c’era il cinema”, mette l’abito da sposa, lascia la sua stanza e comincia a seguire la troupe, facendo finta di niente.
La masterclass prosegue, e Virzì non si scompone mai alle domande del pubblico, nemmeno quando lo stesso ragazzo chiede: «Cosa fai se sul set ci sono ragazzi con handicap?». «Io ho molti handicap», risponde Virzì, senza ironia. «Ragazzi diversi», precisa lui. «Io sono diverso», incalza Virzì. Nonostante il bel gesto del regista, sappiamo che non è così: Virzì non è “diverso”, però bisogna riconoscerlo, La pazza gioia è uno sforzo straordinario e commovente di immedesimarsi nel diverso, e portare dentro i confini della follia. Conosciamo l’”handicap” delle protagoniste, eppure ci piacciono terribilmente, ci fanno ridere, e quando, alla fine del film, scopriamo cosa hanno fatto di orribile, siamo ormai pronti a capirle.
Portando le sue attrici ai Rems (ex OPG) di Castiglione delle Stiviere, di Montecatini e di Pistoia, Virzì le ha spinte a osservare attentamente le pazienti, i loro movimenti, le espressioni: «Poche ore dopo io già non distinguevo più chi veniva da Pistoia, chi dal centro di arte drammatica e chi dalla follia di casa sua».
Anche al cinema si ha quest’impressione. Valeria Bruni Tedeschi, come sempre nel ruolo dell’aristocratica imbellettata, ha qualcosa di diverso: riesce sorprendentemente a fare “il breve passo verso la pazzia”, come lo chiama lei stessa nel Backstage di La pazza gioia di Melania Cacucci, proiettato durante la masterclass. Micaela Ramazzotti è ancora una volta donna di strada, mezza puttana, ma questa volta è disperatamente serrata nella malattia. “A volte mi sentivo in colpa, perché chiedevo a Micaela di non sorridere mai. Lei è una donna molto sorridente”, dice Virzì.
E infatti nel film Donatella non sorride mai, tranne nell’ultima scena, guardando Beatrice che la accoglie dalla finestra. Non ci sono padri, mariti o compagni degni di pietà in La pazza gioia: solo due amiche che si aggrappano l’una all’altra. E quando chiedono a Virzì perché ha scelto di raccontare la pazzia, e perché quella di due donne, lui passa brevemente in rassegna i suoi modelli di letteratura classica e psicoanalitica, Don Chisciotte, Madame Bovary, Freud e Jung («in grado di comprendere e ricostruire la natura umana, come fa lo sceneggiatore»), e infine ammette: «Mi piace filmare le ragazze».

Marta De Nitto Personé