La Mostra di Michele Anselmi per Cinemonitor | 20
Parte con una nota spiritosa “America Latina”, quinto e ultimo film italiano in gara qui alla Mostra. La tonante sigla musicale della Universal viene suonata con uno zufolo da pastori, e alla proiezione parecchi sorridono. Ma dura poco l’allegria. Perché i due gemelli romani Damiano e Fabio D’Innocenzo, classe 1988, confezionano una storia ancora più fosca e desolata di quanto fatto con “La terra dell’abbastanza” e “Favolacce”.
Avete in mente quei film che portano idealmente, sui titoli di testa, una scritta al neon lampeggiante che avverte: “Metafora, metafora, metafora”? Ecco, “America Latina” questo è, solo che non basta la parolina per dire al cinema qualcosa di profondo. Tuttavia i D’Innocenzo godano già, nonostante la giovane età, dello status di maestri indiscussi.
Leggo sulle note di regia: “Abbiamo scelto di raccontare questa storia perché, semplicemente, era quella che ci metteva più in crisi: come esseri umani, come narratori, come spettatori”. Purtroppo la storia non si può riassumere qui, perché costruita sul filo di un continuo scambio di piani: tra realtà e allucinazione, tra cronaca e inconscio. Restiamo ai primi venti minuti, allora.
Siamo dalle parti di Latina, dove il dentista Massimo Sisti pare aver trovato la felicità, alla faccia delle origini umili. Guadagna cifre enormi, guida una costosa Volvo, abita con la moglie e le due figlie in una villona fuori città con piscina e una specie di celeste scala imperiale. Eppure qualcosa turba l’esistenza dell’uomo, dedito all’alcol, colpito ogni tanto da piccole amnesie, in pessimi rapporti col padre sempre in cerca di soldi.
Un giorno, scendendo nell’enorme cantina disabitata, un po’ in stile “Saw”, Massimo vi trova un tappeto di bottiglie di plastica e una ragazza legata a un tubo, male in arnese, affamata, con un bavaglio alla bocca. Chi è? Com’è finita lì? E perché lui non chiama subito la polizia?
Quella sventurata sembra un’immagine da America Latina, nel senso dei desaparecidos argentini o cileni, ma è chiaro che il titolo gioca, per contrasto, col nome della città pontina e una certa idea mitica dell’America. E intanto lo smottamento psicofisico incalza, tutto si colora di rosso, le tre donne assumono un che di angelico, mentre il tg trasmette notizie su un turpe massacro familiare.
Elio Germano, cranio rasato e barbetta diabolica, s’immerge totalmente nella fisiologia del dentista, restituendone soprassalti, paure, aggressività. Insomma, la sua “dark side”. Avrete capito che l’uomo è alquanto svalvolato, a un passo dalla nevrosi, e certo il film, tenuto sul filo di un’inquietante ambiguità, asseconda la minaccia che si respira, fino alla spiegazione, più o meno, della faccenda.
Come nei due film precedenti, le fulminanti intuizioni visive contano più della drammaturgia o dei dialoghi, e naturalmente i due fratelli trovano nella fotografia di Paolo Carnera una fantasiosa alleata. Ma il deragliamento del dentista è più esibito che spiegato, in un rincorrersi di scene a effetto, tra dettagli fisici ingigantiti, acque rischiose, crostate tentatrici, ombre insinuanti.
Nel cast, oltre al mattatore Germano, interpreti come Astrid Casali, Sara Ciocca, Filippo Dini e Massimo Wertmüller, tutti intonati al registro un po’ allucinato caro ai due autori. Prodotto da Lorenzo Mieli con Le Pacte e Vision Distribution, il film uscirà nelle sale a novembre.
Michele Anselmi