Prima regista nero fieramente indipendente, al timone di cruciali film all blacks come Fa la cosa giusta e Malcom X. Poi regista capace di svettare con storie “di bianchi” come La 25ª  ora, nonché di mimetizzarsi con personalità nelle pastoie dell’heist movie hollywoodiano in Inside Man.
Non è riuscito a Spike Lee l’ennesimo allargamento di campo: attestarsi come “autore mondiale” con un war movie epico in stile Hollywood classica, che non a caso si apre con una lunga citazione de Il giorno più lungo. Operazione smaliziata, non c’è che dire: resuscitare un cinema ideologicamente quasi sempre pro classe dominante e capovolgerne le premesse, con quattro ragazzoni neri al posto di John Wayne. È uno Spike Lee “governativo” quello di Miracolo a Sant’Anna, come se con la possibile (e auspicabile) vittoria dell’amico Obama il regista di Atlanta si sia sentito in diritto di giocare al tavolo dei potenti, rinunciando a quello che è il suo talento principale: fare opposizione.
Un atteggiamento, per carità, non condannabile a priori, se non fosse che, nel perorare la sacrosanta causa dei neri d’America nella Seconda Guerra Mondiale, Spike abbia omesso di documentarsi sul serio e si sia affidato al polpettone scritto da James McBride, azzardato per le ipotesi che avanza e intriso di una spiritualità sempliciotta e semplificatoria. E che nel tentativo di cancellare uno stereotipo – solo i soldati bianchi hanno combattuto per la bandiera statunitense – ne produca di altri, a partire da quegli italiani ridotti per lo più a macchietta comica in contesto tragico. Oppure forzi i toni cadendo nel revisionismo involontario, dipingendo come unico vero villain l’ufficiale americano bianco, mentre i tedeschi nel complesso appaiono più che coscienziosi.
In ogni caso, sottolineiamo, Miracolo a Sant’Anna fallisce non tanto perchè ideologicamente e politicamente mal tarato, ma in quanto esteticamente “inguardabile” per larghissimi tratti. Ce lo immaginiamo, Spike, sperso come i suoi soldati tra le rive del Serchio e i borghi toscani, mangiare pappardelle anelando a un hamburger. Nelle mani un budget forse insufficiente (e si vede nelle scene di battaglia da b movie anni ’70), è incapace di inquadrare efficacemente luoghi e facce (in particolare le nostrane). Soprattutto, non riesce a districarsi in una sceneggiature più irrisolte degli ultimi anni, in cui l’episodio chiave – l’eccidio nazista di Sant’Anna di Stazzema – si fa attendere più del dovuto e poi arriva – un’assurdità – in forma di flashback, a scongiurare ogni possibile crescendo narrativo ed emotivo. Largo allora all’iniezione posticcia di epica, con le musiche tremendamente ridondanti di Terence Blanchard e quel finale patetico che rischia di mettere a repentaglio la carriera del malcapitato Luigi Lo Cascio.