L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor
Inchiniamoci ai nostri doppiatori: probabilmente i migliori al mondo per antica tradizione, in parte originata dall’autarchico ventennio fascista. Ma è anche vero che gli spettatori italiani dovrebbero, diciamo potrebbero, al di là delle recenti sciocchezze pronunciate da Vincent Cassel sulla cosiddetta mafia del doppiaggio, abituarsi all’idea di vedere ogni tanto i film in lingua originale coi sottotitoli. Sforzandosi magari un po’. Perché il rapporto voce-volto dice molto, se non tutto, della prova di un attore, non solo di quelli che vengono dal mitico Actors Studio di New York.
È altrettanto vero, però, che certe battute in slang, parolacce colorite e giochi verbali sono spesso intraducibili. Bisogna inventarsi qualcosa per rendere l’idea nel passaggio dall’inglese a quello che chiamiamo “doppiaggese”. Solo che spesso l’ignoranza e la distrazione fanno brutti scherzi. Vogliamo chiamarli errori, cantonate, sviste, misfatti?
Il catalogo è ampio, pure divertente, specie quando entrano in gioco i cosiddetti “false friends”, cioè quelle parole che sembrano simili, appunto amiche, per assonanza, e invece custodiscono significati diversi. Per dire: lurid sky non è un cielo sporco, bensì livido; sympathy, anche quella “for the devil” di una celebre canzone dei Rolling Stones, non indica simpatia nei confronti del demonio, al massimo comprensione; morbid non è affatto morbido bensì morboso; parent non significa parenti ma genitori; actually non vuol dire attualmente ma realmente, effettivamente.
Chiara Colizzi, doppiatrice illustre, figlia di Pino, voce di star come Nicole Kidman, Uma Thurman e Kate Winslet, ricordava che, lavorando su una serie tv americana di ambiente familiare, si imbatté nella definizione “tiger mom”, solo che non si parlava di animali e mamme tigre. Per evitare di dire fesserie, scoprì che la locuzione, resa celebre dal libro di Amy Chua “Il ruggite della mamma tigre”, stava a indicare la rigidità di certe madri asiatiche: molto esigenti nei confronti delle figlie affinché tirino fuori sempre il meglio in ogni campo, dallo strumento musicale imposto ai risultati scolastici.
Ma andiamo avanti. Qualche tempo fa, su una canale digitale della Rai, passava una vecchia puntata di “Star Trek”. E faceva un certo effetto ascoltare più volte il mitico capitano Kirk dire silicone al posto di silicio, benché sul significato di “silicon” non dovrebbero esistere dubbi.
E a non dire di “caucasico”. Fateci caso: non esiste serie poliziesca, da “Criminal Minds” a “Cold Case”, dai vari “Csi” a “Unforgettable”, da “Dexter” a “Senza traccia”, in cui a un certo punto, a proposito di vittime o sospetti, uno sbirro non dica «di razza caucasica». Intendendo bianca, di origine indo-europea. Va bene: non sarà un vero e proprio errore, ma per la maggior parte di noi italiani – diciamolo – i caucasici sono gli abitanti del Caucaso.
False friend, per certi versi, è anche quel «sublime» pronunciato da Clint Eastwood in “Coraggio… fatti ammazzare!”, quando l’attore-regista interpretava ancora il roccioso ispettore Callaghan, anzi Callahan in originale, senza la “g”: solo che la parola, usata per commentare la farraginosità di una certa burocrazia, non alludeva alla nostra idea di sublime, bensì al ridicolo.
A metà giugno 2012, è uscito in Italia “Il dittatore” di Sacha Baron Cohen. Il pur bravo Pino Insegno faceva i salti mortali per restituire l’inglese maccheronico e politicamente scorretto del tiranno alla Gheddafi incarnato dal sulfureo comico ebreo. E parecchio si perdeva nell’adattamento, ad esempio il gioco di parole macabro, di fronte a una coppia di stagionati americani, tra l’automobile Porsche 911 e l’apocalittico 11 settembre 2011, ovvero 9-11. E che dire della spiritosa battuta che echeggiava nel “Grande Freddo” di Lawrence Kasdan, del tutto intraducibile nel doppiaggio pure ben fatto? Il divo tv Tom Berenguer, di fronte all’amica assistente sociale Mary Kay Place che vorrebbe un figlio da lui, chiede: «Perché proprio io?», lei risponde: «Perché hai dei buoni geni». L’uomo sorride e pizzica i suoi pantaloni scoloriti: già perché genes e jeans suonano nello stesso modo in inglese.
Cambia il discorso quando si passa, appunto, agli strafalcioni veri e propri. Il catalogo è vasto. Con effetti anche spassosi. Difficile, per chi mastica un po’ di blues, dimenticare la toccante scena di “The Blues Brothers” nella quale un ancora magro Dan Aykroyd, cioè il fratello Elwood, rievoca teneramente al nero Cab Calloway i tempi in cui «mi cantavi i blues in cantina e suonavi l’arpa». L’arpa? Infatti in inglese suonava “harp”, che significa semplicemente armonica a bocca. In pochi se ne accorsero. Ma certo suonava strano che un vecchio bluesman di Chicago suonasse l’arpa. Pure la cantina non c’era: “downhome” evoca il Sud, la musica tradizionale dei vecchi tempi, non lo scantinato.
Per restare in campo musicale, grida vendetta il doppiaggio di “La ragazza di Nashville” di Michael Apted, sempre del 1980, con Sissy Spacek nei panni di Loretta Lynn, figlia di minatori e star americana della musica country. Torna più volte, anche in un manifesto, la locuzione Grand Ole Opry, a indicare una delle più famose trasmissioni radiofonico-musicali del mondo, nata nel 1925 e tutt’ora in onda. Nel film diventa “il grande vecchio Oprai”. Pronunciato proprio così, Oprai, mentre dovrebbe dirsi “Grand Ole Opri”, e sfidiamo chiunque a capire di che si tratti. Eppure bastava ascoltare la pronuncia originale e ripeterlo pari pari, senza inventarsi nulla.
Del resto, non esiste film western doppiato in cui Tucson, la mitica cittadina dell’Arizona, sia pronunciata correttamente: Tusón, senza far sentire la c. E pensare che risuona pure in una celebre canzone dei Beatles, “Get Back.
Certo, capita di peggio. In “Shutter Island” di Martin Scorsese la battuta finale acquista un interrogativo insensato, sicché «It’s better to die a good man than live as a monster» diventa «È meglio vivere da mostro o morire da persona per bene?». Sarà un’altra inezia, ma “Bastardi senza gloria” di Quentin Tarantino traeva il suo fascino anche dall’essere recitato in quattro lingue, solo che da noi ne perse due: per cui quando il diabolico e poliglotta nazista Landa si rivolge in italiano all’ammazza-nazi Aldo Raine, l’eroe deve fingere di non capire esprimendosi in un ridicolo dialetto siculo. E che dire, andando indietro nel tempo, di Rock Hudson che per portarsi a letto la vergine Doris Day in “Il letto racconta” si atteggia a ubriaco intonando «Mi so’ alpin, me piase el vin»?
Passi che in “Harry Potter – I doni della morte” una data di nascita riferita al thirty, cioè 30, di un mese nel doppiaggio diventa thirteen, cioè 13, con grande scandalo dei fan del maghetto. E magari si può scusare chi lavorando ai dialoghi di “Manhattan”, sì quello di Woody Allen, pensò di tradurre «When it comes to relationship, I’m the winner of the August Strindberg Award» in «Quando si tratta di rapporti con le donne io sono il vincitore del premio Sigmund Freud». Evidentemente l’adattatore, ritenendo che lo spettatore medio italiano sarebbe stato spiazzato dal riferimento a Strindberg, ha provveduto a sostituirlo con un nome a tutti noto: il barbuto padre della psicoanalisi.
Poi, con la scusa del sincrono e delle labiali, accadono a volte cose bizzarre. Prendete il cartone animato “Il castello errante di Howl” di Hayao Miyazaki: in originale Sophie dice «Nessuno è mai morto per mancanza di carattere» che in italiano diventa «Nessuno è mai morto per un’arrabbiatura». Vai a sapere perché.
Probabilmente intraducibile era una battuta di “Quando l’amore brucia l’anima”, cine-biografia di Johnny Cash con Joaquin Phoenix. Ci si riferiva a una storia epica molto nota negli Usa. «Non voglio più fare la parte del ragazzo olandese che mette il dito nella diga», sentiamo dire. Così non si capisce nulla. Trattasi, infatti, della leggenda di un ragazzo che, accortosi di una crepa in una diga, vi mette il dito e aspetta tutta la notte al freddo che qualcuno venga ad aggiustarla.
A volte, però, c’è poco da ridere. Arrivarono le scuse formali della distributrice Lucky Red quando uscì “The Millionaire”. Un clamoroso errore di doppiaggio, con risvolti politici e rabbia delle comunità islamiche. Qualcuno ricorderà: in una drammatica sequenza, la madre dei protagonisti resta uccisa in un assalto perpetrato da integralisti indù ai danni di una comunità di musulmani. Invece una voce gridava, nella versione italiana, «sono musulmani, scappiamo!» al posto di «sono musulmani, prendeteli!», inducendo erroneamente gli spettatori a credere che gli assalitori fossero di religione musulmana e gli assaliti indù.
Ma non si può chiudere senza ricordare la cantonata di cui fu vittima il ruvido dottor Gregory House nella prima puntata delle serie, 2004, quella diretta addirittura da Bryan Singer, il regista dei “Soliti sospetti”. A un certo punto, incapace di risolvere il caso di una poveretta intossicata da un’insidiosa tenia prodotta da carne di prosciutto mal cotta, il burbero medico teorizza: «Come insegna il filosofo Iagger non si può sempre avere quello che si vuole». Il doppiatore dice proprio “Iagger”, alla tedesca, con la “i”, e pochi minuti dopo pure Cuddy, l’avvenente collega innamorata del misantropo, replica: «Ho controllato quel tuo filosofo Iagger, non si può sempre avere ciò che si vuole, ma con la determinazione ci si può arrivare molto vicino».
Uno pensa: e chi sarà mai questo filosofo? Forse Werner Jaeger (1888-1961), uno dei più profondi interpreti del pensiero antico, gran studioso di Aristotele e del mondo greco. Neanche per idea. Lo “Iagger” in questione era semplicemente Mick Jagger, il leader dei Rolling Stones, lo stesso della fondamentale “You can’t always get what you want”. Che significa appunto: «Non si può sempre avere quello che si vuole». L’omaggio, tra l’ironico e il generazionale, era così spudorato che nei titoli di coda dell’episodio partiva, a totale chiarimento del gioco citazionista, l’incipit della canzone. Ma né l’adattatore dei dialoghi né il direttore del doppiaggio devono averlo riconosciuto, azzerando così l’amabile strizzatina d’occhio all’universo di riferimento, musicale e “filosofico”, di House.
Per inciso il sottotitolo italiano della serie tv, chiusa qualche mese fa per calo degli ascolti, recitava “Medical Division”. Peccato che nell’originale quelle due consonanti – M.D. – si riferissero alla dizione latina: “Medicinae Doctor”. Da non credere.
Ogni tanto, però, il doppiaggio reinventa spiritosamente. Difficile dimenticare “Frankenstein Junior” con Gene Wilder. La famosa battuta “Lupo ululì, castello ululà” è più divertente dell’originale scioglilingua, che suona “Werewolf? There wolf, there castle”. Un miracolo.
Michele Anselmi