Il 5 dicembre è approdato nelle sale il quinto capitolo della sanguinosa saga di “Saw”, il 19 dicembre troveremo sotto l’albero il seguito del film di animazione “Madagascar”. Annunciati per la prossima estate “L’era glaciale 3” e le nuove gesta del maghetto Harry Potter. E non saranno gli unici sequel dei prossimi mesi, in accordo con una tendenza piuttosto evidente che si è andata affermando negli ultimi anni. La serialità sembra trovarsi sempre più a suo agio sul grande schermo. Sono soprattutto le case di produzione statunitensi ad utilizzare quest’arma, molto spesso, vincente. E allora vale la pena di riflettere su alcune caratteristiche del fenomeno, nuovo per certi versi, vecchio per altri.
In effetti la serialità al cinema non è una scoperta di questi anni. Chi non ricorda l’abbondante filiazione che negli anni ’80 avevano prodotto film horror come “Nightmare” (7 episodi), ”Halloween” (9 episodi), “Venerdì 13” (ben 12 episodi compreso un remake)? Accanto al genere horror, ben si prestava alla serialità anche il cinema di fantascienza: “Alien” (3 sequel), “Predator” (1 sequel, più 2 spin-off in team con Alien), per citarne tra i più famosi. Tra i capostipiti della serialità fantascientifica al cinema può essere annoverato “Il pianeta delle scimmie” (4 sequel, 1 remake più 2 serie tv). Discorso a parte meritano ovviamente le due trilogie lucasiane “Guerre Stellari” e “Indiana Jones”, per l’importanza e il successo che hanno avuto. Una prima osservazione può essere riferita proprio al genere di film che più si avvaleva della serialità: si trattava molto spesso di film horror e sci-fi, più i film commedia-avventura (“Beverly Hills Cop”, “Ritorno al futuro”…..). Rispetto agli anni ’80, lo spettro di generi si è allargato. Innanzitutto l’animazione digitale: “Shrek”, “L’era glaciale”, “Toy story”, “Madagascar”. Abbiamo poi le grandi saghe fantasy o fantascientifiche, spesso basate su opere letterarie, e progettate sin dall’inizio per sviluppare la trama in più episodi: “Il Signore degli Anelli”, la nuova trilogia di “Star Wars”, “Narnia”, “Harry Potter”. Un altro filone che si sta rivelando estremamente propenso alla serializzazione cinematografica è quello dei super-eroi, quasi sempre presi dal mondo dei fumetti: “Batman”, “Spiderman”, “Hulk”, “X-Men”, “Blade”. Insomma, l’impressione è quella che il cinema americano appena può, ripete. Le ragioni di questa tendenza sono facilmente intuibili: ogni nuova uscita cinematografica è accompagnata da un margine più o meno ampio di incertezza, ma se un film fa centro è ipotizzabile che il successo di un secondo film sia meno soggetto a questi margini, anche se non è mai possibile prevedere la risposta del pubblico a un eventuale sequel in maniera scientifica. 
Proviamo allora ad avanzare alcune ipotesi. Possiamo pensare che agisca un certo effetto “traino”: un’opera esce nelle sale e ottiene un largo consenso di pubblico. A questo punto la produzione decide di battere il chiodo finchè è caldo e fa uscire un sequel. Tale “numero 2” porterà in dote, ereditato dal primogenito, un cospicuo numero di spettatori che si sono appassionati ai personaggi e alle vicende narrate. È un ottimo trampolino di lancio, che infatti viene sfruttato molto spesso. A volte l’attesa del pubblico è talmente febbrile ed estesa che il “numero 2” ottiene risultati straordinari già alla prima settimana, cosa che magari non era riuscita al primo film, proprio perché non beneficiante dell’effetto “traino”. E così succede a volte che il sequel ottiene risultati superiori ma il merito, in questo caso, è tutto del primo film, soprattutto se prendiamo in considerazione i dati relativi alla prima settimana, in cui ad andare in sala sono stati gli appassionati, “a scatola chiusa”. Nei giorni e nelle settimane successive subentra il passaparola e l’opinione della critica, per cui l’effetto “traino” lentamente si affievolisce a favore di altre forze. Lo stesso effetto è osservabile nel campo della musica. Spesso ad esordire al numero uno nelle classifiche di vendita è il disco successivo a quello che ha ottenuto ottimi riscontri di pubblico o di critica e che viene considerato un capolavoro. 
Queste considerazioni lascerebbero supporre che l’”operazione sequel” sia una sorta di successo annunciato. In realtà l’effetto “traino” rappresenta solo un vantaggio di qualche metro, dopodiché la produzione dovrà correre con le proprie gambe. Se queste gambe non sono allenate e scattanti, crolleranno dopo pochi metri sotto il peso del passaparola negativo e della critica. Questo avrà un effetto disastroso su un eventuale “numero 3” che partirà, anziché con un vantaggio, con un handicap. Oppure, più plausibilmente, non partirà affatto. 
A questo punto possiamo introdurre delle distinzioni sui caratteri della serialità. L’esempio classico, e più cautamente razionale da un punto di vista di pianificazione economica è quello del tipo: primo film autoconclusivo—> in caso di successo produzione di un sequel e così via. L’applicazione più pura di tale filosofia produttiva prevede una serie di episodi autoconclusivi, addirittura totalmente slegati uno dall’altro (esempio: la serie di “007”). Ad un secondo livello troviamo opere come “Matrix” e “Guerre stellari: Una nuova speranza”. Partiti come episodi autoconclusivi, l’inaspettato e clamoroso successo ha poi convinto i produttori a realizzare delle trilogie (non che i vari Lucas o fratelli Wachowsky non lo sperassero fin dall’inizio…..). È interessante notare qui come, dopo il primo successo, si sia subito passati all’idea della trilogia, saltando a piè pari lo step di verifica tra il secondo e il terzo episodio. Lo schema è stato, in questo caso, quello del “1+2”, a differenza del “1+1+1….”. Nella trilogia di Lucas tale strategia è dimostrata chiaramente dal finale de “L’impero colpisce ancora”, seguito del primo “Guerre Stellari”, in cui i nostri eroi vengono congelati (letteralmente nel caso del comandante Han Solo) in attesa dell’esito finale che si avrà solo sul terzo capitolo. In casi come questo la continuity è parte fondamentale della narrazione ed è molto marcata. 
Proseguendo su questa linea arriviamo a produzioni che vengono concepite fin dall’inizio come seriali. Siamo assolutamente certi, cioè, che al primo episodio ne seguiranno altri. In alcuni casi, in cui la continuity è estremamente serrata, possiamo addirittura parlare di film in due, tre o più parti o atti, come “Kill Bill” (che effettivamente, in un primo momento, era stato concepito come un unicum anche nella forma), “Il Signore degli Anelli”, la nuova trilogia di Lucas sulle guerre stellari o “Harry Potter”. È evidente come dietro questo tipo di produzioni e mega produzioni ci sia un margine di incertezza relativamente basso, grazie all’imponenza dei mezzi messi in campo, al successo riscontrato dai romanzi da cui sono tratti alcuni di questi film, o alla fama dovuta a una precedente trilogia.
E in Italia? Partiamo dall’osservazione che da noi il fenomeno sequel è molto poco sviluppato. Le motivazioni sono varie, ma ce n’è una in particolare che vale la pena di sottolineare: i generi che negli Stati Uniti rappresentano terreno fertile per la serializzazione sono poco o nulla praticati in Italia. Parliamo infatti di produzioni che richiedono risorse non indifferenti. 
Tuttavia, escludendo per ora i suddetti generi, possiamo anche ipotizzare che ci siano strade di più facile percorribilità per una serializzazione made in Italy. Qualche anno fa ce lo dimostrò “Fantozzi”. Intanto si parla già da tempo di sequel per “L’ultimo bacio”, previsto per il 2010…