Se si dovesse individuare, nella storia del cinema italiano, una stagione d’oro, quando – per intenderci – il nostro paese era in grado di proporre film validi da un punto di vista artistico e competitivi a livello internazionale, molti potrebbero indicare la stagione neorealista, senza esitazioni. Ma forse, al secondo posto, si potrebbe porre quel fortunato momento che, fra gli anni Sessanta e Settanta, ha regalato al belpaese una serie inenarrabile di capolavori. Da Teorema a Ecce Bombo, siamo senza dubbio di fronte a un momento di snodo della storia del nostro cinema in cui, si potrebbe azzardare, si sviluppa la generazione autoriale che avrebbe portato lo stile cosiddetto moderno, pure con tutte le caratteristiche precipue dell’italianità, nelle nostre sale.
Ebbene esiste un film, divenuto oggetto di vero e proprio culto da parte degli appassionati del genere, che ha senza dubbio avuto il merito di aprire questa stagione anche al documentario, linguaggio considerato da sempre un po’ polveroso e non troppo interessante. Mondo cane, realizzato nel 1962 dal fortunato terzetto Cavara, Jacopetti, Prosperi, al di là delle sue scene sensazionalistiche che ne hanno decretato la sfortuna critica e al contempo l’elemento di canonizzazione presso il pubblico, è un prodotto di una modernità disarmante. Anche tralasciando la presenza di una voice over che ci introduce alle vicende commentandole con un tono che potrebbe ricordare quello del moralismo antico, il film è efficace già a livello strutturale, con una forma labirintica che – per quanto sfilacciata – finisce sempre per riportarci al punto di partenza, all’interno del trittico ancestrale amore-morte-cibo. Anche tecnicamente si tratta di un lavoro estremamente rifinito, realizzato da professionalità competenti che avevano qualcosa da dire.
Effettivamente, uno dei motivi per cui Mondo cane (non vale la pena di soffermarsi qui sulla sorte dei suoi sequel più o meno degenerati) rimane impresso nella mente dello spettatore è senza dubbio la nuda evidenza con cui mostra – senza tagli o nascondimenti – diverse realtà che mettono in discussione, ad esempio, la categoria storiografica di progresso. Il tutto si risolve in una wunderkammer che, per come è strutturata da un punto di vista formale, non può non chiamare in causa lo spettatore come agente attivo. Oggi sembra che il documentario abbia perso le tracce di questo tentativo di rinnovamento, che ha continuato a germinare in modo sotterraneo, lontano dal giudizio dei critici (la stroncatura del Morandini è emblematica).
Un lavoro come il Sacro GRA di Rosi, premiato con il Leone d’Oro 2013, per quanto interessante sulla carta, non è in grado di rivaleggiare con la capacità espressiva di una regia che – con mezzi molto più limitati – riusciva a coinvolgere e a raccontare insieme. Le umanità spesso desertiche che si coagulano intorno al GRA danno l’impressione di essere piccoli siparietti costruiti a tavolino, senza naturalezza; questo comporta, conseguentemente, una generalizzata sensazione di noia che incrina la dialettica realismo-artificialità a favore del secondo polo, destabilizzando tutta la struttura del film. Per molti potrebbe sembrare paradossale, essendo il film di Jacopetti un oggetto ostracizzato dal nostro campo di visione, ma forse c’è bisogno di tirarlo di nuovo fuori dal cassetto se si vuole che il linguaggio-documentario si rinnovi nuovamente.
Giuseppe Previtali