L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per “il Secolo XIX”

Il dilemma morale morale posto da “Monuments Men”, ridotto all’osso, è il seguente: è giusto sacrificare vite umane in guerra per salvare capolavori dell’arte? La risposta arriva nell’epilogo del film, un po’ alla maniera di “Salvate il soldato Ryan” di Spielberg: un nonno canuto e un nipotino – siamo nella cattedrale di Bruges, 1977 – osservano la straordinaria Madonna con bambino di Michelangelo, ammutoliti da tanta bellezza. Quell’uomo anziano, 32 anni prima, contribuì a recuperare la scultura destinata ad essere distrutta per volere di Hitler, come da ordine scritto impartito alle SS in vista della caduta di Berlino.
E proprio alla Berlinale 2014 George Clooney, dopo un’anteprima newyorkese, ha voluto portare in concorso il suo quinto film da regista, appunto “Monuments Men”, nelle sale italiane dal 13 febbraio. I tedeschi non ci fanno una bella figura, anzi pessima: furono circa 6 milioni le opere d’arte trafugate dai nazisti, molte delle quali razziate, se il conflitto mondiale fosse andato diversamente e per fortuna non fu così, per arricchire il sogno megalomane di Hitler di costruire a Linz un gigantesco Führermuseum. Oltre 5 milioni di quegli oggetti preziosi, tra quadri, sculture, mobili, argenterie, arazzi, furono recuperati appunto dai “monuments men” e restituiti ai legittimi proprietari, molto spesso ebrei depredati o avviati ai campi di sterminio. Il nomignolo viene dall’acronimo Mfaa, sta per Monuments Fine Arts and Archives, un corpo speciale voluto nel 1943 dal presidente Roosevelt per proteggere e i capolavori rubati dai nazisti.
Erano 345 in tutto, tra uomini e donne, proveniente da tredici nazioni, molti dei quali storici dell’arte, curatori di musei, direttori di mostre, restauratori. Indossarono la divisa, si addestrarono all’uso delle armi, e, con l’elmetto in testa, affiancarono le truppe alleate con una missione speciale da compiere. Il film di Clooney racconta, partendo da un libro di Robert Edsel per caso acquistato all’aeroporto dall’amico sceneggiatore, produttore e regista Grant Heslow, l’avventura di sette di questi uomini: cinque americani, un inglese e un francese.
Impresa costosa da 65 milioni di dollari, quattro mesi di riprese, negli studi tedeschi di Babelsberg, ma anche in Sassonia, Berlino e Inghilterra, un cast all-star, con lo stesso Clooney a guidare sullo schermo nei panni del carismatico professor Frank Stokes, tra il 1944 e il 1945, quel manipolo di esperti poco bravi a sparare ma abili nell’inseguire le tracce dei quadri: gli yankee Bill Murray, John Goodman, Matt Damon e Bob Balaban, il britannico Hugh Bonneville e il francese Jean Dujardin (sì, quello di “The Artist”). C’è anche una donna, incarnata da Cate Blanchett, una francese ispirata alla vera Rose Volland: fu lei, vicina alla Resistenza ma ingaggiata dai nazisti per catalogare le opere d’arte, a indicare le numerose miniere di sale in cui erano stati stipati e nascosti dai nazisti quei capolavori di incommensurabile valore.
«La cultura dei popoli è la loro vita. Quando i talebani hanno distrutto edifici storici e musei, senza che i soldati americani pensassero a proteggerli, hanno privato un popolo della propria identità» spiega Matt Damon, amico e sodale di Clooney, tanto da accettare la parte inizialmente scritta per Daniel “007” Craig. Che fosse l’arte “degenerata” di Picasso, Dalì, Klee e Mirò, o quella classica di Rembrandt, Vermeer, Cezanne e Rodin, i nazisti misero in atto una gigantesca operazione di trafugamento pilotata dallo stesso Hermann Göring: lo vediamo, nell’incipit, osservare soddisfatto una collezione di gemme provenienti da ogni parte d’Europa.
Il film di Clooney, per creare la giusta suspense e animare il plot narrativo, si concentra sulla caccia a due capolavori “scomparsi”: una grande pala d’altare del maestro fiammingo Jan van Eyck e appunto la Madonna di Michelangelo, entrambe provenienti da due chiese. Il rischio è che vengano distrutte dai tedeschi o recuperate dall’Armata Rossa (anche i sovietici avevano organizzato una speciale brigata), così Stokes deve sbrigarsi: tutto porta verso una miniera dalle parti di Altaussee, in Austria, e sarà una corsa contro il tempo.
Sostiene Clooney, oggi 52enne e perfetto in divisa e col baffetto brizzolato: «Il film di guerra sono una genere nobile, ma in più questa storia aveva due vantaggi. Pur essendo autentica, era poco conosciuta, e soprattutto priva di un certo cinismo alla moda. Qui ci sono tipi gloriosi e per nulla bastardi». Il riferimento ironico è a Tarantino, al suo potente “Bastardi senza gloria”. Clooney regista sceglie una strada diversa, più classica, da anni Sessanta, con intermezzi di commedia miscelati a torsioni drammatiche, una mezza storia d’amore e riferimenti vari, per diretta ammissione, a film come “La grande fuga” di John Sturges, “I guerrieri” con Clint Eastwood o “Il treno” con Burt Lancaster. Il clima generale è vagamente passatista, da cinema d’altri tempi, e chissà se piacerà al pubblico italiano; ma poi ci sono momenti che lasciano il segno: quel bambino tedesco trasformato in forsennato cecchino, quel soldato sbandato della Wermacht che cita John Wayne fumando una sigaretta insieme a due “monuments men”, quel ritratto di donna appartenente a una famiglia ebrea gasata ad Auschwitz che Matt Damon riappende pietosamente al suo posto, nella casa parigina ormai vuota.

Michele Anselmi