Mr. Beaver | Mel Gibson convince solo a metà
Walter Black dirige un’azienda di giocattoli in piena crisi di vendite ed è affetto da una grave forma di depressione che lo spinge più volte a tentare il suicidio. Il figlio maggiore lo odia e non vuole fare la fine del padre. La moglie lo abbandona perché non sopporta più di vivere con un morto che cammina. Ma la salvezza per Walter spunta un giorno dal cassonetto dell’immondizia: è Mr. Beaver. Un peluche a forma di castoro diventa la sua mano sinistra e la sua vita vira verso una rinascita…
Con Mr. Beaver Jodie
Foster si divincola dall’americanismo tutto kolossal, film fantastici e super effetti speciali, puntando tutto sull’impervia e spinosa tematica della depressione. E lo fa con un soggetto estremamente originale, stringendo sul potere terapeutico di una marionetta, di quei peluche che piacciono a grandi e piccini e che, nella loro non-vita e immobilità eterna, sono spesso più espressivi e vitali dell’uomo.

Il film si apre con tono e musichette da commediola, poi una voce fuoricampo illustra una tragica situazione familiare, ma senza indugiare sul patetismo. La cromia fredda delle prime scene, la stessa che attanaglia l’animo di Walter, si fa via via sempre più evidente e avvolgente. La regia della Foster è delicata ma senza toni da fiction, personale ma non eccentrica, e accompagna la vicenda senza rubare la scena ai suoi personaggi. Notevoli le ripetute sequenze in cui la bocca del castoro si sovrappone a quella di Gibson, in un continuo gioco di sdoppiamento/unificazione della personalità (che addirittura raggiunge una “terza dimensione” nella voce fuoricampo in terza persona). Un’opera che procede in terra piana senza strappi o vezzi, verso un finale “in interno di garage” inaspettato ma inevitabile.
Qualche riserva e dubbio inossidabile rimane per la prova di Mel Gibson. L’aggettivo migliore per definirla è altalenante. Il suo volto di cemento ci propina per 90 minuti lo stesso sguardo da pesce lesso e cane bastonato con occhi al limite dell’essiccazione. La qual cosa può andare bene avendo a che fare con un personaggio depresso. Il problema sta nella coscienza che Gibson ha del suo personaggio. Alterna infatti momenti in cui dimostra di star fortemente dentro la parte (assegnatagli con magnanimità materna da Jodie Foster) ad altri in cui sembra cascato dal pero, come se si stesse interrogando sul significato di set cinematografico. In questo secondo caso, il castoro, a confronto, è più intenso e poliedrico. E’ quindi lecito pensare che (forse) qualsiasi altro attore, e ne pesco uno “a caso” come Bill Murray, già navigato dopo la simil-depressa performance in Lost in Translation di Sofia Coppola, avrebbe fatto certamente meglio. Insomma, un buon film con una grossa ombra intorno all’attore protagonista. E scusatemi se è poco…
Tommaso Tronconi