L’angolo di Michele Anselmi
Non ci vuole molto a capire che è il personaggio incarnato da Pierfrancesco Favino, tra i sedici raffigurati dal selfie-manifesto di “A casa tutti bene”, quello nel quale più si rispecchia Gabriele Muccino. Per riflessi personali (forse) e per dilemmi esistenziali (di sicuro). Del resto, il caso ha voluto che i due fossero entrambi a Sanremo per le cinque serate, Favino sul palco a vivacizzare il festival e Muccino in platea a giudicare le canzoni, in una sorta di ravvicinato confronto che si trasferisce in buona misura nel film, in sala da mercoledì 14, per San Valentino, con 01-Raicinema.
“A casa tutti bene” è una commedia corale, direi anzi molto affollata, pensata per il grande pubblico. Non per niente è costata circa 7 milioni e mezzo di euro, che non è poco per gli standard italiani. Se il precedente “L’estate addosso” nasceva da un bisogno di immediatezza e semplicità, anche produttiva, questo nuovo film sancisce, anche stilisticamente, il definitivo ritorno a casa di Muccino dopo l’esperienza hollywoodiana.
Il titolo, per ammissione del regista, qui pure sceneggiatore con Paolo Costella, “rispecchia la condizione di una grande famiglia vissuta al riparo di una maschera di ipocrisia fino al momento in cui gli argini si rompono”. Spunto classico, molto arato dal cinema nazionale, e sono infiniti i titoli che si potrebbero citare in materia: da “Parenti serpenti” a “Speriamo che sia femmina” di Monicelli, da “La famiglia” di Scola a “Il pranzo della domenica” dei fratelli Vanzina…
S’intende che a casa “non” stanno tutti bene, nel senso che il rassicurante modo di dire piazzato nel titolo per antifrasi fotografa, appunto, una realtà inesistente, fasulla, disgregata, tenuta insieme con lo sputo o forse solo grazie a una salutare distanza. “Ma allora è un raduno come si deve” sfotticchia uno dei “radunati”, avviandosi sotto il sole al traghetto che porta tutti a Ischia, dove i facoltosi nonni Ivano Marescotti e Stefania Sandrelli, alle prese con i festeggiamenti per le nozze d’oro, si sono trasferiti dopo aver mollato la gestione di un ristorante di lusso. Il banchetto nella gran villa con piscina e cactus giganti sarebbe indolore, pure veloce, se una mareggiata improvvisa non bloccasse tutti sull’isola. “C’è aria di tempesta dappertutto qua” annusa la festeggiata, mentre il marito non prova neppure a fingere: “Io sono cresciuto orfano, a me la famiglia mi sta sul cazzo”.
Insomma, avete capito. La permanenza forzata sbriciola subito le ipocrisie e incendia gli eventi, in un crescendo di rivelazioni, rancori, bugie, gelosie, tradimenti, invidie, meschinità, e chi più ne ha più ne metta. Solo una manciata di canzoni nostalgiche, strimpellate al pianoforte da Gianmarco Tognazzi, cioè lo sfigato/squattrinato della compagnia, sembra tenere incollata la rissosa famiglia: ci si sgola a intonare tutti insieme “Una carezza in un pugno” o “Dieci ragazze”, ma un attimo dopo la musica cambia e degenera in piazzata invereconda.
Inutile qui far la conta di tutti i parenti, tra sorelle, figli, nipoti, generi, nuore, mogli, ex mogli, mariti, zie, fidanzate incinte e via dicendo. Muccino usa uno stile “a fisarmonica”, note singole e accordi, ora spia le dinamiche di coppia, ora riunisce tutti in salotto, lasciando che il peggio della Commedia Umana venga vomitato sotto quel cielo scuro da tregenda.
Perché dicevo che il personaggio di Favino è forse il più caro a Muccino? Nei panni di un figlio dei festeggiati, il quarantenne Carlo in bilico tra la moglie gelosa che chiede attenzione spasmodica e l’ex consorte apparentemente pacificata con se stessa, l’attore cesella un perfetto maschio italico ultraquarantenne dei nostri tempi. Benestante con Suv, compresso, frustrato, confuso, incapace di dedicarsi alle due figlie di letti diversi, pure pronto a esplodere con un gesto manesco, quasi omicida, di cui subito si pente (pare sia un omaggio a “Le notti di Cabiria”).
Muccino lo conoscete. Alterna virtuosismi estetici, come piani sequenza e riprese acrobatiche, a duetti serrati, digressioni buffe, piazzate nevrotiche, il tutto impacchettato nelle musiche incessanti di Nicola Piovani, con quel sovrappiù di canzoni note utili a far palpitare chi sta sullo schermo e chi siede in platea.
Nel cast composito compaiono, oltre ai nomi già citati, Sabrina Impacciatore, Giampaolo Morelli, Valeria Solarino, Carolina Crescentini, Giulia Michelini, Sandra Milo, Elena Cucci, Stefano Accorsi, Claudia Gerini, Massimo Ghini, quest’ultimo particolarmente toccante nel dare corpo allo svanito Sandro, affetto dal morbo di Alzheimer, presenza evanescente e imbarazzante, a suo modo consapevole.
Se prediligete, sul tema, film tosti e affilati come “Festen – Festa di famiglia” del danese Thomas Vintenberg, “A casa tutti bene” non fa per voi. Muccino ambisce all’affresco agrodolce, con i riferimenti d’obbligo alla commedia dei padri e un gran bisogno di piacere, accarezzare, certo pure divertire (il che non guasta). Tuttavia spira un’aria di già visto, pure vagamente senile, sulla sinfonietta del disamore familiare che si chiude con una nota di speranza. E pensare che il regista ha solo 50 anni.
PS. Due settimane fa Muccino si lamentò di un mio breve post ironico scritto al volo dopo la proiezione per i critici, giudicandolo sbrigativo e astioso, o giù di lì. Mi invitò poi pubblicamente, con parole gentili da me ricambiate, a scrivere una recensione meditata, non importa se positiva o negativa. Eccola, ci provo.
Michele Anselmi