L’angolo di Michele Anselmi
I baffoni e la “mosca”, la calata romanesca, il sorriso pieno, un fisico piacevole (piaceva alle donne), una voce che trasmetteva energia, anche sdrammatizzante, solo a tratti capace di indurirsi nella polemica. Dal messaggino di un amico scopro che è morto Alessandro D’Alatri, 68 anni compiuti a febbraio; non si capisce bene che tipo di malattia l’abbia ucciso, i dettagli non sono stati forniti dalla famiglia. Nel 2021 s’era “felicemente separato” dalla moglie Cristiana, tedesca, dopo ventisei anni di matrimonio, con una fotografia e un messaggio pensati di comune accordo, quasi a dire: ci lasciamo ma restiamo amici, prima che qualcuno faccia dei pettegolezzi su di noi.
Mi piaceva Alessandro, anche quando certi suoi film mi piacevano meno di altri che aveva fatto. È stato attore da ragazzino, poi ottimo regista pubblicitario (chi non ricorda il fortino della Tim ispirato alla Legione straniera?), poi cineasta interessante e non banale, capace di frequentare i generi più diversi: commedie d’epoca, tragedie esistenziali, farse politiche, la vita di Gesù, film di impianto quasi documentaristico, usando più volte gli attori con i quali s’intendeva bene: da Kim Rossi Stuart a Fabio Volo.
Nasceva politicamente comunista, intendo della Fgci, e noi due ci si conobbe all’epoca di “Americano rosso”, 1991, un curioso film ambientato negli anni Trenta, sotto il fascismo, per il quale mise insieme Fabrizio Bentivoglio, Burt Young e Sabrina Ferilli (platinata e di facili costumi: il personaggio intendo). Era legato alla storia del Pci, così mi pare di ricordare, ma in fondo custodiva un temperamento anarchico, anche un po’ trasgressivo e gaglioffo, alla Vittorio Gassman del periodo d’oro: i soldi che guadagnava con le pubblicità e i videoclip gli servivano per fare film a volte rischiosi, come “Senza pelle” o “I giardini dell’Eden” che pure fu preso in concorso alla Mostra di Venezia. Con l’età s’era avvicinato alla religione cattolica, almeno così mi disse; poi, sul piano politico, ai Cinquestelle, ma forse era solo un senso di insofferenza verso un potere senile, deciso ad autoperpetuarsi, poco dedito a farsi da parte.
Otto film per il grande schermo, serie di successo come “I bastardi di Pizzo Falcone”, “Il commissario Ricciardi” e “Il professore” (stava lavorando alla seconda stagione ancora più ambiziosa), infinite campagne pubblicitarie, un gusto speciale per la musica.
La serialità televisiva era diventata, per lui, un modo per stare sul set più tempo possibile, non doversi sbattere per mettere insieme film indipendenti che faticavano in sala, specie gli ultimi “Sul mare” e “The Startup – Accendi il tuo futuro”, giocare con i generi per estrarne un rapporto denso e continuativo col pubblico.
Alessandro si sentiva talvolta “incompreso” dalla critica e dalle istituzioni cinematografiche, ma forse non era così: capita a tutti, in questo ambiente, di passare da momenti di gloria, insomma di successo pop, a momenti in ombra, poco gratificanti, faticosi.
Avevo parlato con lui al telefono, qualche tempo fa, volevo semplicemente fargli un complimento: era stato davvero bravo a curare tutti i ruoli, anche i minori, nella serie sul commissario Ricciardi inventato dalla penna di Maurizio De Giovanni. Ne nacque una chiacchierata di quasi due ore tra due ultrasessantenni coetanei, tra battute, affondi e rimembranze, con il sottoscritto che gli parlava con entusiasmo della pensione e lui che non vedeva l’ora di girare qualcosa di nuovo.
Non so se avesse ancora quei baffoni, probabilmente ormai imbiancati, ma so che aveva cominciato a farsi tatuare ampie porzioni delle braccia, come capita a chi, invecchiando, si sente più libero di provare, sperimentare, fregarsene delle convenzioni o del buon senso. Mi dispiace davvero che sia morto così, a 68 anni, con tante idee in testa; senza averlo rivisto a pranzo per litigarci un po’ e poi fare pace.
Michele Anselmi