L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor
Se ne accorse anche Michelangelo Antonioni dopo aver girato negli Stati Uniti “Zabriskie Point”, stroncato dalla critica e disertato dal pubblico. Meglio raccontare le cose che si conoscono, per lingua, cultura, appartenenza. Prendete il quarantenne Pablo Larraín, regista cileno di esuberante talento, autore di film come “Tony Manero”, “No – I giorni dell’arcobaleno” e “El Club”. A Venezia, un mese e mezzo fa, è passato in concorso il suo “Jackie”, girato in America con attori hollywoodiani, che racconta dal punto di vista di Jacqueline Kennedy i giorni successivi all’assassinio di JFK. Un ritratto interessante, ma senza guizzi, come ingessato. Prendete invece il precedente “Neruda”, in sala dal 13 ottobre targato Good Films, e vedrete la differenza di stile e profondità: proprio perché Larraín sa bene di cosa parla. Anche se naturalmente non era ancora nato nel 1948, quando il poeta cileno di “Canto general”, nonché diplomatico e senatore comunista, dovette scappare per non finire in carcere.
Dimenticare il titolo, il film non racconta la vita di Ricardo Eliécer Neftalí Reyes Basoalto, in arte appunto Pablo Neruda (1904-1973), ma isola quell’immersione nella clandestinità, che durò più di un anno, per ricamarci sopra in una chiave più letteraria che biografica, più onirica che realistica, più simbolica che politica. Magari pochi sanno: Neruda dovette darsi alla macchia perché il presidente Gabriel Gonzáles Videla, che pure il Partito comunista cileno aveva contribuito ad eleggere, sterzò rapidamente a destra, represse con ferocia gli scioperi dei minatori e mise in pratica fuori legge i “rossi”. Uomo di punta del comunismo cileno e intellettuale già carismatico, Neruda non poteva certamente finire in gattabuia: così, sotto la protezione del Partito e insieme alla moglie pittrice Delia, si diede alla macchia, nella speranza di raggiungere l’Argentina e da lì volare a Parigi.
Tuttavia “Neruda” non è una caccia all’uomo in senso classico. Presto capiamo che al regista poco interessa ricostruire quella fuga secondo i canoni del genere. Sfumano i contorni, la luce risulta volutamente artificiosa/artificiale, una certa aria da noir anni Quaranta (con tanto di “trasparenti” nei tragitti in auto) si combina a un andirivieni temporale che spiazza, allude, ironizza. L’uomo Neruda, per nulla umile, incline a frequentare i bordelli e a pavoneggiarsi in società, è colto in tutta la sua raffinata vanità, l’unica cosa che sembra stargli a cuore è lo status di «gigante popolare» eternato dall’esilio; e quasi si diverte a ingaggiare una sfida a distanza con il giovane e zelante supersbirro Oscar Peluchonneau, dal baffetto piacione e dal Borsalino sempre in testa, ingaggiato per catturare il poeta scomodo, sottrarlo alla leggenda.
Scritto da Guillermo Calderón, “Neruda” distilla ironie sottili sul fascino illusorio del comunismo sovietico e al tempo stesso evoca la ferocia della repressione antipopolare che 25 anni dopo culminerà nel golpe ordito da Augusto Pinochet (non a caso il futuro dittatore appare in una sequenza). Ma non è neppure questa la qualità più bizzarra e insinuante del film, il quale, a mano a mano che procede l’inseguimento, fino a una sorta di resa dei conti dai tratti western tra le nevi della Cordigliera, perde ogni connotazione realistica per attingere ad atmosfere surreali, quasi metafisiche.
«Io sogno lui che sogna me» confessa il poeta, i cui buffi travestimenti, con barbe finte, parrucchini e poncho da vaquero, diventano quasi materia romanzesca, al pari di quel poliziotto sempre più immateriale, un po’ di carta e un po’ di sangue, deciso solo a non essere «un personaggio secondario» nella commedia tragica alla quale stiamo assistendo.
A tratti viene da pensare al Bertolucci del “Conformista”, benché Larraín conduca tutta la partita su un registro più lieve e giocoso, anche i versi di Neruda, che si perdono un po’ nella versione doppiata, offrono un contrappunto ironico, quasi a suggerire la diabolica capacità del poeta libertino e puttaniere nell’inventare personaggi che in tutto e per tutto dipendono dalla sua vena artistica, dal suo umore latino. Luis Gnecco e Gael García Bernal incarnano prodigiosamente i due antagonisti a distanza, mentre Mercedes Morán è la moglie del poeta, Delia del Carril, illusa di poter rivaleggiare con l’ego smisurato dell’illustre coniuge.
Michele Anselmi