NINE
di Francesco Puma
C’era una volta (e resterà tra i classici, nel tempo) il mitico 8 ½ di Fellini (con quel “mezzo” che alludeva all’esperienza di Luci del varietà, regia condivisa con Alberto Lattuada). Oggi c’è Nine (il “nove” del titolo si riferisce sia alla nona regia sia all’età iniziatica del protagonista) un rinomato musical di Broadway che debuttò trionfalmente nel 1982 avvalendosi della partitura di Maury Yeston e del libretto firmato da Arthur L. Kopit (l’adattamento italiano è di Mario Fratti), finalmente approdato su grande schermo in versione glamour per la regia di Rob Marshall (quello del sincopato, spumeggiante Chicago premiato da un Oscar). Genio e sregolatezza, cupio dissolvi, priapismo e delirio d’impotenza, cinema nel cinema: questo è il sistema Fellini mediato dal capolavoro visionario divenuto un archetipo cinematografico innumerevoli volte copiato, evocato, citato, ma in verità resistito come superbo e irripetibile esercizio di stile grazie al superiore gusto felliniano e alla leggendaria colonna sonora di Nino Rota (basti l’esempio della marcetta finale malinconicamente circense che sintetizza le disillusioni e il mal di vivere del protagonista Marcello Mastroianni, disimpegnato alter ego del maestro riminese, timido e ferino). Manco a dirlo, è proprio la misura di questo stile che viene a mancare in Nine, rievocazione patinata della Roma “dolce vita” del 1965 con tutti gli stereotipi annessi: gli spaghetti e i mandolini, le vibrazioni sommesse di Murolo e quelle urlate di Celentano (non mancano i “24.000 mila baci” del Molleggiato) con una messa in scena vintage dai non pochi difetti. Siamo di fronte ad una mera illustrazione (da spot chic) dell’allestimento di successo, dove si sciorinano numeri musicali (non tutti efficaci) che evocano a vuoto una visionarietà contraffatta, tutti legati da un impianto drammaturgico tradizionale, incapace di decollare a causa di una maldestra e farraginosa sceneggiatura scritta da Michael Tolkin (già autore dello straordinario copione de I protagonisti di Altman) e dal compianto Anthony Minghella (il film è dedicato alla sua memoria). Sorprende per difetto Daniel Day-Lewis legnoso ma funzionale interprete del personaggio di Guido Contini (e non Anselmi come il Mastroianni felliniano), in ambasce perché privo di uno straccio di sceneggiatura per il suo nono film, propagandato in una rutilante conferenza stampa dal produttore Dante (Ricky Tognazzi). Il capolavoro annunciato dovrebbe intitolarsi “Italia” in omaggio al Belpaese col supporto della neo – diva Claudia Jenssen (Nicole Kidman), sua musa ispiratrice. La crisi di Guido è anche esistenziale e non solo creativa, per via di un’endemica afasia amorosa. Come nel modello, anche qui gli squarci onirici riguardano sia la sua infanzia (per l’occasione appaiono le escrescenze fantasmatiche della madre impersonata da Sophia Loren e della prostituta Saraghina che l’ha iniziato all’amore), sia le fughe di coscienza da intellettuale di mezza età, tutte orientate verso il cul de sac nichilista. Ma Nine è soprattutto un musical che denuncia l’origine teatrale (mercé la ricostruzione del mitico Teatro 5 di Cinecittà agli Shepperton Studios di Londra) senza mai diventare cinema. Siamo dunque lontani dagli straordinari exploit di Bob Fosse e dai classici di Vincente Minnelli, ma anche dal più modesto ma robusto Chicago, nonostante l’ambizione da blockbuster e gli alti costi di produzione. Tutto risulta bloccato in superficie, come uno sterile omaggio ad un lussurioso e smagliante mondo perduto impossibile da ritrovare. Il cast è comunque di prim’ordine: Judi Dench interpreta Lilli, la costumista e amica confidente di Guido, sfoderando un’invidiabile classe nel numero “Folies Bergères”, un recitar cantando con voce roca alla Gabriella Ferri, uno dei rari momenti da ricordare. La procace Penélope Cruz è la fragile amante del protagonista Carla, occasione per esibire un abbagliante aplomb erotico derivato dall’esperienza con Almodóvar, mentre una delle migliori attrici francesi sul campo, Marion Cotillard, dona alla sua Luisa, devota moglie di Guido, movenze struggenti e degne di nota. Sottotono la breve perfomance della Kidman e risulta pura fuori registro (ed epoca) Kate Hudson che sfodera comunque un bel timbro per il ruolo di Stephanie, giornalista della rivista “Vogue” (la sua canzone originale, scritta apposta per il film, s’intitola “Cinema italiano”). Unica presenza felliniana doc risulta essere Fergie di Stacy Ferguson, grazie all’abbondante stazza che rende bene l’idea di Saraghina, impegnata però nel brano “Be Italian”, mediocre sia nella struttura musicale sia nelle parole. Nel cast si notano i camei dei nostrani Valerio Mastandrea, Elio Germano, Giuseppe Cederna, Roberto Nobile, Monica Scattini, Roberto Citran, assieme al caratterista Sandro Dori, a Martina Stella e a Remo Remotti nella parte del Cardinale. Ad impersonare Guido all’età di nove anni c’è il piccolo Giuseppe Spitaleri, siciliano che si agita stupito nelle poche scene in cui appare. Alle canzoni già presenti in palcoscenico se ne aggiungono, per la versione sullo schermo, tre nuove di zecca accanto alle musiche originali del nostro Andrea Guerra. Non bastano gli squarci onirici delle location di Roma e Anzio ad affiancare le riprese negli studi londinesi per conferire spessore ad un’operazione citazionista, noiosa e, a tratti, irritante. Una cosa è certa: Fellini va rievocato solamente attraverso Fellini, quel tocco magico del maestro che raccontando se stesso ha saputo dare l’impronta ad un’epoca, facendone metafora della sempiterna condizione dell’artista – funambolo.