L’angolo di Michele Anselmi
Sarà per via del nome dato al protagonista, ma vedendo “The Midnight Sky” m’è tornata in testa una bella canzone di Bob Dylan, il cui incipit recita: “I dreamed I saw St. Augustine / Alive as you or me” (“Ho sognato di vedere Sant’Agostino / vivo e vegeto come noi”). Dylan si riferiva al teologo, filosofo e pensatore anti-manicheo Agostino d’Ippona (354-430 d.C.), sia pure alla sua maniera, mischiando storia e fantasia; e tuttavia ho la sensazione che la scrittrice Lily Brooks-Dalton non abbia scelto a caso di chiamare così l’anziano astrofisico, malato terminale, al centro del romanzo “La distanza tra le stelle” (Nord, 2017). Quel libro è diventato, appunto, il film coprodotto, diretto e interpretato da George Clooney, vedibile su Netflix dal 23 dicembre scorso.
Siamo dalle parti della fantascienza prossima ventura, un po’ “distopica” come s’usa dire, cioè venata di una certa cupezza sul futuro dell’umanità. Leggo che il film non è piaciuto, anzi in molti l’hanno stroncato, e tuttavia a me non pare così male: nel senso che l’ho visto senza guardare mai l’orologio (dura quasi due ore), solo sperando che ogni tanto s’azzittisse la musica solenne di Alexandre Desplat.
Sappiamo tutti che per calarsi nei panni stropicciati dello scienziato Clooney è dimagrito 14 chili, talmente in fretta da procurarsi una seria pancreatite; sarà anche per questo che l’attore 59enne appare così sofferente. Barba da venerabile stanco, capelli radi, faccia patibolare, vomito costante, Augustine Lofthouse sa di avere pochi giorni ancora da vivere, sicché resta ad aspettare la morte nell’osservatorio artico Barbeau, da solo.
Febbraio 2049. Il pianeta sta morendo, non si capisce bene a causa di cosa, forse il riscaldamento globale; l’unica soluzione è vivere nei rifugi sotterranei, ma in quanti potranno? In questo clima da apocalisse imminente, Augustine si ritrova a fare i conti con una bambina silenziosa, dal viso dolcissimo, nascostasi in quella base tra i ghiacchi. Chi è? Perché non è partita con sua madre? Sapremo che si chiama Iris, sfodera una filiale pietà nei confronti del morituro, il quale, per salvare la creatura, decide di raccogliere le ultime forze e di uscire nella tempesta di neve alla ricerca di un’antenna più potente. Intanto, di ritorno dal satellite K-23 di Giove dopo una missione di due anni, l’astronave “Aether” capta proprio il messaggio che arriva da Augustine. Ma anche lassù hanno i loro guai da risolvere, grazie a una costante pioggia di meteoriti, e ancora non sanno ciò che è successo sulla Terra.
Avrete capito che “The Midnight Sky” intreccia i due piani, il cielo stellato percorso dall’avveniristica “starship” e l’inferno ghiacciato pronto a liquefarsi, mentre il tempo stringe e il destino prepara una doppia sorpresa da non rivelare, s’intende.
Naturalmente ci sono gli ologrammi familiari, le stampanti che riparano i radar, gli interni asettici e al neon dell’astronave, pure una rischiosa passeggiata spaziale, insomma tutto l’armamentario tecnico/estetico della fantascienza ravvicinata; ma poi è il “fattore umano” a contare, non fosse altro perché due dei cinque astronauti formano una coppia e stanno per avere una figlia, mentre il vecchio Augustine, scopriamo dai flashback, non è mai riuscito ad essere un bravo padre.
L’andamento del film è malinconico, meditabondo, crepuscolare. Naturalmente si possono citare decine di cine-modelli sul tema, da “Ad Astra “ a “Interstellar”, da “Gravity” a “Passengers”, ma a che serve? Clooney regista per fortuna non “filosofeggia”, racconta uno stato d’animo incline al pessimismo, in attesa che risuoni la frase più citata dalle recensioni: “Non siamo stati tanto bravi a custodire casa mentre eravate fuori”. Eppure, forse, una nuova “Genesi” è possibile.
Il cast è ben scelto. Accanto a Clooney barbuto e stremato figurano Felicity Jones, David Oyelowo, Kyle Chandler e pochi altri; anche se la migliore in campo a me pare la piccola Caoilinn Springall, che fa Iris, così misteriosa ed enigmatica da non sembrare vera.
Si poteva evitare la cantatina corale galattica al suono della vecchia “Sweet Caroline” di Neil Diamond, ma, a quanto pare, una trovata scalda-cuore non si nega a nessuno. No?
Michele Anselmi