L’angolo di Michele Anselmi
Se qualcuno lo cercasse su Netflix col titolo originale, “The Laundromat”, non lo troverebbe. Infatti il film di Steven Soderbergh, su quella piattaforma dallo scorso 18 ottobre senza passare per le sale, è stato ribattezzato da noi “Panama Papers”: più esplicativo e diretto, quindi meno ironico e allusivo. L’ho appena rivisto a quasi tre mesi dall’anteprima mondiale alla Mostra di Venezia, dove era in concorso, e debbo dire che m’è sembrato migliore di allora.
“La “lavanderia” in questione ovviamente non serve per lavare gli abiti bensì per ripulire i soldi: veri, virtuali, sporchi, evasi alle tasse, riciclati, offshore, eccetera. Il film appartiene al Soderbergh ramo sornione, tra ironico e grottesco, benché si parta da un libro-inchiesta serissimo, quel “Secrecy World: Inside the Panama Papers Investigation of Illicit Money Networks and the Global Elite” di Jake Bernstein.
Che il tono sia umoristico/scanzonato appare chiaro dall’incipit: due elegantoni in smoking, incarnati da Gary Oldman e Antonio Banderas, filosofeggiano sulla sacrosanta “leggerezza” dei soldi, rispetto all’antico baratto delle banane, camminando nel deserto accanto a degli uomini preistorici intenti ad accendere un fuoco.
I due, sullo schermo, hanno un nome e un cognome: Jürgen Mossack e Ramón Fonseca, titolari e soci fondatori di un potente studio legale che nel 2016 fu davvero travolto dallo scandalo finanziario legato ai cosiddetti Panama Papers. Due maghi della truffa, esperti nella sottile differenza tra privacy e segretezza, tra evasione ed elusione fiscale. Il che non evitò loro il carcere, ma solo per tre mesi, perché a Panama godevano, e godono, di amicizie altolocate.
Il film, diviso in cinque capitoletti, ognuno riferito a un tipo di frode, più un epilogo, invita al sorriso, ma c’è poco da stare allegri. Un battello per turisti agé si rovescia durante una gita sul lago: 21 morti, tra i quali l’anziano marito della casalinga americana Ellen Martin. I parenti delle vittime, pur nella sofferenza, sperano in un rimborso assicurativo da parte della società, ma tutte le polizze sono fasulle, “gusci” vuoti, che rimandano a paradisi fiscali irraggiungibili.
“Panama Paters” isola alcune storie esemplari, passando dai Caraibi alla Cina, dall’Africa ai Messico, e ogni volta rispunta fuori la società panamense. Ma la vedova è molto arrabbiata, e sta meditando qualcosa di formidabile per vendicarsi e punire i due lestofanti…
Giocando al cinema nel cinema, tra affondi buffi e personaggi che si rivolgono allo spettatore, Soderbergh mette a punto un’agra requisitoria contro la finanza allegra volentieri protetta dagli Stati, specialmente dagli Stati Uniti (l’ultima scena è fulminante, infatti scattò l’applauso dei critici a Venezia). Viene un po’ da pensare a “La grande scommessa” di Adam McKay, anche se “Panama Papers” è più divertente, pure meno tecnico, nel suo mischiare miserie umane, truci avidità, illeciti diffusi. Poi c’è il cast messo insieme per l’occasione: oltre ai citati Oldman e Banderas c’è una strepitosa Meryl Streep, più Jeffrey Wright, Sharon Stone, Matthias Schoenaerts, James Cromwell e numerosi altri, tutti con l’aria di aver partecipato volentieri alla commedia con Buona Causa incorporata.
Michele Anselmi