L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per Cinemonitor
Inutile dire che il nome del bianco orsetto polare non è scelto a caso. “Nanuk l’eschimese” è il titolo di un mitico film del 1922 realizzato dal documentarista Robert J. Flaherty: dedicato alle popolazioni Inuit della Baia di Hudson, alla loro dura vita sui ghiacci, assumendo il punto di vista di una famiglia nel corso di un anno. Il 56enne Brando Quilici, figlio di Folco, da sempre affascinato dalla bellezza maestosa e terribile del Circolo Polare Artico, deve aver ripensato a quel capolavoro di taglio antropologico nello scrivere “Il mio amico Nanuk”, anche se la storia è di pura finzione, quasi un action movie per ragazzi, immerso negli sterminati spazi bianchi della banchisa. Non che sia stato facile. Ci sono voluti quattro anni per mettere a punto la combinazione produttiva, anche per trovare i soldi, tanti, se è vero, come assicura Quilici jr, che l’impresa è costata 18 milioni di dollari. Il 13 novembre “Il mio amico Nanuk” esce in circa 300 copie nelle sale italiane, targato Medusa; a marzo 2015 in Canada, Stati Uniti, Cina e altri mercati. L’idea è di raccontare la storia, tenera e audace insieme, un po’ alla Jack London, dell’amicizia imprevedibile tra un cucciolo d’orso polare e un ragazzino quattordicenne.
Funzionerà al botteghino? Quilici ci spera, confortato dal successo di titoli come “Belle et Sébastien” e “Vita di Pi”; e d’altro canto, dopo aver girato da quelle parti ghiacciate una complessa serie tv in 13 puntate per Discovery Channel, il documentarista italiano aveva voglia di misurarsi con qualcosa di diverso, unendo senso dello spettacolo, brutalità della natura e respiro popolare. Infatti la regia vera e propria è firmata dal canadese Roger Spottiswoode, di cui si ricordano filmoni hollywoodiani come “Sotto tiro”, “Air America” o “Agente 007. Il domani non muore mai”; mentre la sceneggiatura, su soggetto dello stesso Quilici, è stata scritta dal cineasta inglese Hugh Hudson, quello di “Momenti di gloria” e “Greystoke”, insieme a Bert Gavigan.
Gli Inuit, che sarà meglio non chiamare più Eschimesi, c’entrano lo stesso, eccome. Sono alcuni di essi, dei balenieri, ad accogliere i due “fuggitivi”, anzi a salvare la vita del ragazzino un po’ sventato, scaldandolo dopo una caduta nell’acqua gelata (ci pensano due amorevoli donne, madre e figlia, pure carine) e rifocillandolo con carne di beluga. «Noi distruggiamo la loro cultura e ancora ci accolgono a braccia aperte» commenta l’esperta guida Muktuk, che forse cagionò anni prima la morte del padre di Luke Mercier. Luke è appunto il tosto adolescente, con bella mamma cetologa, deciso a riconsegnare a mamma orsa l’amato cucciolo da lui battezzato Nanuk. Perché si è messo in testa di compiere quella missione impossibile? Perché altrimenti l’orsetto morirebbe di stenti, diventerebbe un tappetino o finirebbe in qualche zoo. O magari perché, come sentiamo dire, «un’aquila non vola perché sua madre possa star tranquilla».
La storia è inventata, ma il contesto è autentico. «A causa del riscaldamento globale, con conseguente scioglimenti dei ghiacci, gli orsi polari e i loro cuccioli si spingono fino ai villaggi dell’Artico, alla ricerca di cibo» spiega Quilici. Nel film siamo a Devon, nei territori occidentali del Canada, nei giorni del disgelo. Una femmina d’orso, avvicinatasi al garage di Luke, viene addormentata dai ranger per essere trasportata in elicottero, la mattina dopo, nella remota Cape Resolute. Ma nessuno s’è accorto che c’era anche il cucciolo, ancora piccolo e da svezzare. Un batuffolone bianco pasticcione e affamato.Luke lo nasconde in camera, come fosse un cane, e il giorno dopo, caricata la slitta a motore di benzina e provviste, parte per il Grande Nord, con l’idea di riconsegnare Nanuk alla madre. Sarà l’inizio di un’odissea indicibile, tra tempeste di vento, ore alla deriva e rischi di congelamento.
Girato in soli 32 giorni, quasi tutto in esterni, lassù nella Baia di Hudson, “Il mio amico Nanuk” ha dovuto fare i conti con la repentina crescita dell’orsetto Pezoo trovato in Cina dopo parecchi tentativi. A inizio riprese pesava 22 chili e beveva solo latte, a fine riprese ne pesava 37 e aveva già lo sguardo del predatore (oggi è un bestione da quasi 200 chili). E naturalmente si devono a Quilici le suggestive riprese artiche che Spottiswoode ha montato tra una scena e l’altra dell’avventuroso viaggio verso Cape Resolute, a farci capire, senza troppe didascalie, quanto quelle distese bianche siano in realtà ricolme di vita animale, di bellezza da salvare o preservare.
Poi, certo, “Il mio amico Nanuk” adotta un andamento classico, anche un po’ schematico e prevedibile, di film per famiglie; e ogni tanto verrebbe quasi voglia di rifilare una scappellotto al ragazzino incarnato dal canadese Dakota Goyo (nel cast anche i più noti Bridget Moynahan e Goran Visnjic).
Naturalmente noi italiani avremmo tutto da imparare dai canadesi. Loro sanno come addormentare un’orsa polare da 300 chili senza procurarle danni permanenti. In Trentino, invece, l’orsa Daniza non è sopravvissuta al sonnifero.
Michele Anselmi