L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per “il Secolo XIX”
A questo punto, dopo il vivace botta e risposta tra il regista e una delle sue attrici per via di alcune scene di sesso tra donne, c’è solo da sperare che alla commissione di censura chiamata a visionare il film martedì prossimo non venga in mente di tirar fuori il massimo divieto: ai minori di 18 anni. In Francia “La vita di Adèle”, anzi “La vie d’Adèle”, è uscito il 9 ottobre proibito solo ai minori di 12 anni, totalizzando in un week-end 261 mila biglietti, pari a 1 milione e mezzo di euro. Tenendo conto che è un film di tre ore, pure faticoso e delicato nel tema, ma non per questo meno bello, si può parlare di conferma di un successo. Cominciato con la Palma d’oro a Cannes 2013, voluta dal presidente di giuria Steven Spielberg, continuato con l’anteprima al festival di New York. L’idea è di farlo gareggiare agli Oscar nelle sezioni principali, quelle che pesano, replicando, se possibile, il trionfo di “The Artist”.
Non sarà facile, perché il 53enne regista franco-tunisino Abdellatif Kechiche, ai festivalieri noto per titoli come “La schivata”, “Cous cous” e “Venere nera”, fa un cinema estremo, rigoroso, meditato, dai tempi dilatati, considerato sgradevole a causa di certi dettagli realistici in materia di sesso. Tuttavia non si spiega proprio, se non in chiave vagamente autolesionistica o umorale, la polemica a scoppio ritardato che Léa Seydoux, attrice peraltro brava nonché nipote del potente Jérôme Seydoux gran capo della Pathé, ha accesso nei confronti del suo regista.
«Le riprese sono state dure, oppressive, dolorose. Un’esperienza orribile. Non lavorerò più con Kechiche. In nessun’altra professione si accetterebbe quel che abbiamo subìto: in Francia il regista è una superpotenza» aveva sparato. Nel film, da giovedì prossimo distribuito in 150 copie da Lucky Red, fa Emma, la colta pittrice lesbica dai capelli blu di cui si innamora la giovane protagonista di estrazione proletaria, appunto la Adèle del titolo, incarnata da Adèle Exarchopoulos. Non bastasse, Seydoux aveva raddoppiato la dose, con frasi del tipo: «Ho aiutato Adèle e lei ha aiutato me: ci siamo reciprocamente salvate. Certe scene di sesso sono state umilianti. Noi due nude, circondate da tre cineprese, anche cinque ore su una stessa sequenza, per dieci giorni». Risultato: «Uno stato di shock. Mi sono sentita come una prostituta». Addirittura? Sembra di riascoltare la turbata Maria Schneider dopo la mitica “scena del burro” inventata sul set da Bertolucci e Brando. Francamente un’esagerazione.
Volato qualche giorno fa a Roma con l’altra attrice di “La vita di Adèle”, che poi è la vera protagonista, Kechiche non ha riaperto la querelle con Léa Seydoux. «Lo so, il film scatena reazioni forti, viscerali, è uno specchio. Forse c’è un fantasma, a volte maligno, che alterna aspetti gradevoli, come premi, successo, critiche positive, e aspetti deprimenti, come certe polemiche» scandisce dosando le parole. Non così diplomatico s’era rivelato qualche settimana fa, accusando la 28enne Seydoux di «essere nata e cresciuta nella bambagia», di «far parte di un sistema che ancora tarda ad accettarmi perché ritiene il mio cinema disturbante», di «comportarsi da divetta adulata incapace di entrare nel ruolo».
Di sicuro non ha avuto problemi la 19enne Adèle Exarchopoulos, bella, alta, labbra carnose, voce adulta: «Una ninfa dallo sguardo di Bambi e dalla bocca da baciare» scrivono di lei le riviste femminili parigine. Accompagnata dal fidanzato-attore Jérémie Laheurte, Adèle deve tutto a Kechiche e non lo nasconde. «Un grande professionista: preciso, puntiglioso, è stata dura, ma anche l’esperienza più bella della mia vita» sorride. E le scene di sesso? «All’inizio imbarazzanti, poi sono diventate una specie di gioco, ci siamo lasciate trasportare dall’avventura, riuscivamo perfino a riderne». Anche grazie all’aiuto di sottili protesi di lattice applicate sui rispettivi organi genitali.
L’interessato, schierato dalla parte della “sua” Adèle, ricambia i complimenti, spiegando come lei si sia subito imposta: per naturalezza, gestualità, freschezza. «Perfetta nel modo di toccarsi i capelli, di tirarsi su i pantaloni, di divorare il cibo e il sesso. Volevo raccontare l’incontro tra una donna che appartiene all’élite culturale e una ragazza che viene dalla piccola borghesia proletarizzata. L’amore può resistere a queste differenze di classe?». “La vita di Adèle” doveva intitolarsi “Il blu è un colore caldo”, come il graphic novel di Julie Maroh da cui è liberamente tratto. Ma poi, anche grazie al romanzo di Marivaux “La vie de Marianne” lungamente citato all’inizio del film in chiave di contrappunto filosofico/sentimentale, ecco l’idea di far coincidere il nome dell’attrice con quello della protagonista. «Un’eroina da romanzo di iniziazione, che passa dall’adolescenza alla prima maturità, da liceale in jeans turbata in bilico tra etero e omosessualità a maestra elementare in gonna fattiva e amata dai bambini. Mi piace, di Adèle, “l’esprit de liberté”. Il suo indomito appetito di vivere la porta in situazioni pericolose, come capita quando non si vuole frustrare il desiderio» spiega il regista.
Fitto di riferimenti colti, da Tiresia a Sartre, da Schiele a Klimt passando per la “Lulù” di Pabst, ma dentro una drammaturgia randagia che sembra ritagliata dalla vita vera, “La vita di Adèle” è tutt’altro che un “film-shock”; anzi è tenero, rispettoso, mai pornografico. In fondo è la storia di un’educazione sentimentale in chiave lesbica. Il sottotitolo dice: “Capitoli 1 e 2”, quasi a prevedere un seguito, come se Adèle potesse diventare un personaggio alla Antoine Doinel di Truffaut, da seguire nel corso degli anni e degli amori. Speriamo solo che nessuno, a destra, parli più di «finocchie lesbo-chic», come purtroppo accadde sul “Giornale” quando uscì “I ragazzi stanno bene”.
Michele Anselmi