“Notturno” di Rosi: la guerra
vista dai bambini sopravvissuti
all’Isis. Delude invece Gitai
La Mostra di Michele Anselmi per Cinemonitor / 8
“Notturno” non nel senso del canone musicale, anche se una certa malinconia, tra lucido pessimismo e tenue speranza, affiora dal nuovo film di Gianfranco Rosi accolto in concorso qui al Lido, il terzo italiano. Il 56enne Rosi è il regista di “Sacro GRA” e “Fuocoammare”, l’uno Leone d’oro a Venezia 2013, l’altro Orso d’oro a Berlino 2016; insomma, uno che vince sempre col suo cinema in bilico tra documentarismo e reinvenzione, indagine sul campo e artificio calibrato.
Ci sono voluti tre anni per realizzare “Notturno”, perlopiù trascorsi lungo i confini di Kurdistan, Siria, Iraq e Libano. “Ho cercato di raccontare la quotidianità di chi vive lungo il confine che separa la vita dall’inferno” spiega il cineasta. “Ho voluto raccontare le storie, i personaggi, oltre il conflitto. Sono rimasto lontano dalla linea del fronte, ma sono andato laddove le persone tentano di ricucire le loro esistenze”.
In effetti è così, anche se qualche didascalia non avrebbe guastato, magari per far comprendere meglio, a chi guarda il film, contesti, situazioni, luoghi, oltre quella generica scritta sui titoli di testa che allude alla tragedia mediorientale innescata dal disfacimento dell’Impero ottomano. Non a caso, “Notturno” prende ed emoziona laddove tutto diventa più chiaro, anche un po’ meno “poetico” e insistito.
Ad esempio nel resoconto delle atrocità compiute dall’Isis attraverso i ricordi di alcuni bambini rimasti traumatizzati per quanto hanno visto e subito. Nei loro disegni cupi e accurati, nel loro respiro ansioso, nel loro eloquio balbettante gli orrori praticati dai tagliagole islamici vengono sottratti all’usura sadica delle immagini note per trasformarsi in monito universale contro il fanatismo religioso al servizio della conquista territoriale. Subito dopo Rosi mostra decine di prigionieri dell’Isis, con le tute arancioni e le barbe tagliate, nell’ora d’aria dentro un carcere: non fanno più paura, sembrano docili e rassegnati, stipati come pecore in un putrido ovile. Giusto o sbagliato trattarli così?
Nel film la guerra non si vede, ma si sente, evocata da lontane scariche di Kalashnikov, immagino autentiche, che squarciano il silenzio notturno. E intanto ecco un’anziana madre disperata dentro la cella dismessa nella quale fu torturato e ucciso il figlio, nella speranza di “sentire” ancora qualcosa di quella presenza; un giovane bracconiere che scivola con la sua barchetta, come un fantasma, fra i canneti, in uno stagno vicino ai pozzi di petrolio; le audaci guerrigliere peshmerga che non rinunciano alla grazia femminile pure dormendo in tuta mimetica e coi fucili mitragliatori appena oliati; l’adolescente Alì, dallo sguardo opaco, che guadagna 5 dollari al giorno, utili a mantenere la copiosa famiglia, facendo da servo a ricchi cacciatori col Suv; una mamma yazida che ascolta i messaggi telefonici, sempre più allarmati, della figlia catturata da “un tizio dell’Isis” pronta a darla indietro per 400 dollari.
“Sono andato laddove le persone tentano di ricucire le loro esistenze” dice il regista. Incluso un istituto psichiatrico nel quale un dottore prova a mettere in scena uno spettacolo teatrale, tutto geo-politico, facendolo recitare a un gruppo di pazienti. Un’insensatezza nell’insensatezza: a suo modo la cosa meno riuscita di un film comunque interessante, da vedere, che sarà nelle sale dal 9 settembre con Rai Cinema.
* * *
Per alcuni versi si parla di guerra e pace anche in “Laila in Haifa”, dell’israeliano Amos Gitai, che definirei la seconda vera cantonata del concorso dopo “Padrenostro” di Claudio Noce. Gitai è un habitué della Mostra, ma questo nuovo film suona raccogliticcio, sfocato, pure noioso, benché duri 100 minuti. Una frase che echeggia nei dialoghi recita: “Si può dire tutto e il contrario di tutto senza dire assolutamente niente”. Mi pare un’auto-recensione perfetta.
In un locale alla moda nella zona portuale di Haifa, il “Fattoush”, posto accanto ai binari della ferrovia (i treni lambiscono rumorosamente gli avventori), si sta per aprire la mostra di un fotografo ebreo politicamente éngagé ma piuttosto sfigato. La Laila del titolo è la pierre della galleria, bella e sposata con un uomo ricco molto più vecchio lei. Il fotografo è stato appena pestato sul piazzale antistante, non si capisce da chi e perché, e ora, mezzo tumefatto, amoreggia con Laila al piano di sopra. Tra bevute, chiacchiere e scenate, il film introduce altre quattro donne, perlopiù infelici e irrisolte, senza spiegare bene se siano arabe o ebree, tranne una, molto arrabbiata, che milita in una formazione filo palestinese (ma forse è una posa).
L’impianto è teatrale, con la cinepresa che morbidamente passa da un incontro all’altro, a dirci di una convivenza possibile, “normale”, nella quale ci si corteggia al bancone, si finisce a letto, si è presi dalla gelosia o si registra la fine di un amore. “Il comune tessuto umano” evocato da Gitai resta però nelle intenzioni di un film estetizzante, intessuto di battute sentenziose, coloriture esistenziali (Sartre?), dettagli inutili.
* * *
Molto meglio il film di Ann Hui, il cui titolo internazionale suona “Love After Love”. L’eclettica cineasta cinese, destinataria del secondo Leone d’oro alla carriera in questa Mostra declinata al femminile, ha portato al Lido, fuori concorso, un cine-romanzo di formazione tratto da un racconto, “Il primo braciere”, della scrittrice Zang Ailing. A suo un melodramma, insieme fiammeggiante e raggelato, ambientato a Hong Kong poco prima della Seconda guerra mondiale, quando era ancora massiccio l’influsso britannico sul protettorato. La giovane, Weilong di famiglia povera, arriva in città da Shanghai per completare gli studi. Parla bene l’inglese, è timida e carina, s’intende vergine. A darle una mano, dapprima controvoglia, è la fascinosa zia Liang, che conduce una vita da nababbo grazie ai soldi del vecchio marito. Ma c’è qualcosa di strano, pure di sessualmente equivoco, in quella villa ricolma di servizievoli ragazze con la treccia lunga fino al sedere che assomigliano a delle “concubine”.
In un’atmosfera festosa e decadente, tra lussi mai assaporati prima, Weilong prende gusto a quella vita, senza accorgersi di essere diventata una specie di “marionetta” nelle mani della zia, che la vorrebbe utilizzare per adescare uomini maturi e potenti. Lei invece s’innamora perdutamente di un giovane playboy mezzosangue, George Qiao, che la spulzella, e subito dopo la tradisce, spiegando di essere un uomo infedele, inadatto al matrimonio, governato solo dagli ormoni. Lei si dispera, casca in pezzi, vorrebbe tornare a Shanghai dai suoi, ma alla fine resta. E siamo solo a metà del film, che dura 140 minuti, decisamente troppi.
Tuttavia “Love After Love”, nel suo linguaggio tradizionale ma non tedioso, si fa vedere volentieri: per l’eleganza della ricostruzione, il cinismo sottopelle, il ritratto di una società viziosa ed esangue. Alla fine, mentre i colori si incupiscono nel sentore della guerra, una spenta Weilong chiederà solo una cosa all’impenitente sciupafemmine che alla fine l’ha sposata per farsi mantenere: “Oggi regalami una bugia”. Bello.