L’angolo di Michele Anselmi
Giovedì 20 aprile non esce soltanto “Il sol dell’avvenire” di Nanni Moretti nelle sale italiane. Lo dico senza spirito polemico alcuno, solo perché merita subito una visita, a mio parere, anche “November. I cinque giorni dopo il Bataclan”, che arriva dalla Francia nonostante l’incongruo titolo inglese escogitato dai distributori della Adler Entertainment (non andava bene “Novembre”, tra l’altro identico sia in italiano sia in francese?).
Non ricordo chi abbia scritto su Facebook, altrimenti lo citerei, che siamo di fronte a una sorta di “Zero Dark Thirty” transalpino: il paragone col film di Kathryn Bigelow è lecito, pur nelle differenze delle situazioni e di stile. Il regista Cédric Jimenez, marsigliese, classe 1976, già autore di film tosti come “BAC Nord”, ricostruisce infatti i concitati momenti e le serrate indagini seguiti ai feroci attentati islamisti, rivendicati dall’Isis, avvenuti a Parigi la sera del 13 novembre 2015 e culminati nella strage al teatro Bataclan, per un totale di 131 vittime. Un shock per il Paese, quella sera raccolto davanti alla tv per un’amichevole partita di calcio tra Francia e Germania, con l’allora presidente Hollande, socialista, costretto a prendere in mano una situazione devastante, incontrollabile.
Il film non mostra i terroristi all’opera, assume il punto di vista dei servizi segreti e delle squadre di polizia, racconta anche la legittima confusione di ruoli che per qualche ora sembrò paralizzare la Francia nel mirino. E lo fa con un stile asciutto, teso, adrenalinico (col permesso di Moretti che detesta l’aggettivo), un po’ all’americana, diciamo tra Paul Greengrass e appunto Kathryn Bigelow, con qualcosa di Michael Mann forse, ma senza scimmiottare il cinema hollywoodiano sul tema. Certo il doppiaggio italiano non aiuta, perché rende stereotipate le voci, da puro film d’azione, togliendo un certo sapore parigino alla caratterizzazione dei personaggi.
Il prologo ad Atene, dieci mesi prima di quell’orribile 13 novembre, segna una sconfitta per il comandante Fred, ovvero Jean Dujardin, volato fin lì per acciuffare, d’intesa con i greci, un giovane capo jihadista, dal ruolo crescente, che riesce miracolosamente a scappare. S’intende che lo ritroveremo a Parigi, e a quel punto Fred e i suoi dovranno molto darsi da fare per capire che cosa bolle in pentola e se l’Isis sta organizzando, in tempi ravvicinati, un altro spettacolare attentato, forse alla Défence.
“November – I cinque giorni dopo il Bataclan” è scandito dal passare delle ore, anche da un senso di sconfitta incombente, nonostante la spettacolare forza tecnologica messa in campo dallo Stato francese. Ci sono false piste, iniziative personali maldestre, depistaggi e indizi bizzarri, il tutto attorno alla domanda cruciale: che fine ha fatto Abdelhamid Abooud, considerato una delle menti del commando, insieme a Salah Abdeslam? È davvero morto in Siria, centrato da un drone, oppure si nasconde, sotto un ponte dell’autostrada non lontano da Parigi, mischiato ai senzatetto?
Di solito prendo appunti, vedendo un film, per ricordare battute e situazioni. Stavolta non ho nulla o quasi: nel senso che non mi sono un attimo distratto. Jimenez, prendendosi qualche comprensibile libertà rispetto agli eventi reali, non trascura il “fattore umano” ma inchioda lo spettatore a questa caccia all’uomo, snervante e preoccupata, che si porta dietro anche un dilemma etico/giuridico. Già perché una giovane donna di origine araba ma di nazionalità francese, decisa a collaborare con le squadre speciali sapendo qualcosa di utile, rischia di finire associata ai terroristi solo per via della sua condizione.
Anticipo il rilievo: “Sarà solo un film per maschietti”. Non è così, perché, pur tra sparatorie, appostamenti, irruzioni ed esplosioni, “November”, calibra la retorica patriottica e il dolore del lutto, sfodera belle figure femminili, e anzi sono esse alla fine a rendere possibile l’individuazione dei criminali attentatori.
Di Dujardin, bravo nel restituire il suo poliziotto duro e sottopressione, s’è detto; ma tutti mi sembrano intonati al racconto serrato, senza psicologismi inutili: da Sandrine Kiberlain ad Anaïs Demoustier, da Jérémie Renier a Lyna Khoudri. Consiglio caldamente.
Michele Anselmi