Al di là delle singole posizioni critiche, è probabile che Nymphomaniac rimarrà per lungo tempo uno dei film più discussi degli ultimi anni. L’uscita in Italia della prima parte di questa lunga cavalcata-confessione firmata da Lars von Trier ha riacceso vecchie polemiche e, in linea di massima, consolidato posizioni che nel caso del regista danese non conoscono mezze misure. A partire da Antichrist, considerato da molti un vero e proprio punto di svolta nella carriera del regista, il pubblico e la critica si sono praticamente divisi fra gli estimatori e i completi detrattori, segnalando la difficoltà profonda di comprendere un cinema che senza dubbio è ormai solo per addetti ai lavori. Nymphomaniac si situa su questa linea di sviluppo, seppure con una rinnovata freschezza stilistica che sembra smussare almeno in parte le spigolosità ermeneutiche a cui ci avevano abituato gli ultimi titoli di von Trier.
Riuscire a far parlare di sé, nell’epoca della postmodernità saturata di segnali iperveloci, è senza dubbio un merito e, con tutta la serenità del caso, non si può non riconoscerlo al nostro autore che in ogni caso, che lo si ami o lo si odi, è uno dei cineasti più interessanti del piatto panorama contemporaneo. E questo Nymphomaniac ce lo conferma, perché von Trier predispone, attraverso una familiare struttura a capitoli (basti pensare all’incompiuta trilogia di cui sono stati prodotti solo Dogville e Manderlay), una summa visiva e drammatica di tutto il suo cinema, orbitante attorno alla musa Charlotte Gainsbourg, ormai divenuta una vera e propria ossessione. Rinunciando almeno in parte all’isolazionismo intellettuale in cui si era segregato negli ultimi anni, von Trier sforna un titolo denso e complesso, che riesce però a non perdere i rapporti con la realtà (il rischio del delirio metafisico era invece piuttosto presente in Antichrist e un po’ meno in Melancholia).
Il ricco tessuto di citazioni erudite e almeno parzialmente autoreferenziali si sposa perfettamente con l’esigenza di un cinema profondo e multilivello, che riesca a risvegliare (nel bene e nel male) le coscienze troppo spesso assopite degli spettatori. Visivamente l’opera è poi di grande impatto: la regia esperta del danese ci regala momenti di grande pittoricità (cosa non nuova per il suo cinema), oltre che evidenziare un uso liberissimo di codici diversi e desunti dai registri più disparati: von Trieri mette in campo una semiosfera brulicante che scherma e denuda al tempo stesso le profondità inespresse della sua opera, in una maniera straordinariamente potente ed inedita anche per lui.
Nell’attesa del secondo volume, e ancor più della versione integrale non censurata (che potrebbe finalmente riaccendere il senso di una filologia cinematografica sensata e non solamente legata ai grandi titoli del muto), va detto che una valutazione serena su Nymphomaniac è molto difficile a proporsi, proprio per la grande complessità dell’opera e per la quasi assoluta impossibilità di sbarazzarsi dei preconcetti che un regista come von Trier sembra aver appositamente instillato nelle menti dei suoi spettatori. Il che per un verso è certamente un peccato, ma forse in un altro senso costituisce il più sincero merito di un’opera come questa.
Giuseppe Previtali