Pubblicato da Shatter Edizioni, “Devil’s Eyes: Rob Zombie tra il palco e lo schermo” di Edoardo Trevisani è il volume che svela al cinefilo il mondo oltraggioso e orrorifico del rocker e regista americano, facendo emergere il legame strettissimo tra palco e schermo nella costruzione di un immaginario affascinante e uguale a nessun altro. Ne abbiamo parlato con l’autore.

“Devil’s Eyes: Rob Zombie tra il palco e lo schermo” analizza il percorso cinematografico di Robert Bartleh Cummings, dando ampio risalto alla sua attività musicale, specialmente laddove questa è stata palestra formativa per il fare cinema. Possiamo parlarne?

Edoardo Trevisani.: La musica rock è la prima occasione per Rob Zombie per dare sfogo alla sua vena creativa e lo fa in un periodo e in un contesto per niente semplice, come quello della scena underground degli anni Ottanta a New York. Sin dai primissimi passi dei White Zombie, troviamo tutta una serie di riferimenti culturali, di immagini e di situazioni che più avanti ritroveremo nei suoi film. Lo stesso nome della band non è altro che il titolo di un film di Victor Halperin del 1932, famoso per essere il primo film della storia in cui compaiono gli zombie. In più Rob Zombie da subito decide di girare da solo i videoclip per la band e questa esperienza è stata una vera e propria palestra per il futuro regista.

Il cinema di Rob Zombie, già a partire da “La casa dei 1000 corpi”, si pone come riscrittura, ancora più sporca e cattiva, del new horror. In che modo questo aspetto del suo essere autore è cambiato negli anni fino ad arrivare ad un titolo spartiacque come “Le streghe di Salem”?

E.T.: Una cosa che salta subito all’occhio quando si ha a che fare con Rob Zombie è la sua estetica assolutamente originale, nella quale confluiscono il cattivo gusto, il grottesco, la violenza e la provocazione e della quale si serve per rileggere gli elementi chiave dell’horror. Questo almeno a un livello superficiale, a un livello più profondo, Rob Zombie getta uno sguardo politico sulla realtà che lo circonda. “La casa dei 1000 corpi” non è solo l’irruzione di un rocchettaro nell’universo dell’horror, ma il ritratto satirico e rivoltante di un’America profonda, malata. Film dopo film, poi, il percorso diventa sempre più articolato e quando arriviamo a “Le streghe di Salem” ci troviamo di fronte a una riflessione inquieta sul male, la dipendenza, la solitudine, l’arte. Tutti argomenti presenti nelle pellicole precedenti, come nei due “Halloween”.

Oltre alla fascinazione per i fumetti, il pulp e l’horror propriamente detto, nei film di Zombie emerge un insieme di ispirazioni alte – da Murnau a Peckinpah, da Russell a Jodorwsky – in grado di rendere visivamente unico il suo universo. Come funziona questa vertigine di ispirazioni e in che modo progredisce di pellicola in pellicola?

E.T.: Rob Zombie è un autore consapevole, dietro la sua parvenza ironica e provocatoria, il suo cinema ha una profondità sconcertante. Quello che fa il regista non è semplicemente raccontare delle storie dell’orrore, ma indagare i meccanismi della paura, cercare di scrutare il volto mostruoso che si nasconde dietro la violenza, quella concreta, brutale, irrazionale, che ha segnato la storia degli Stati Uniti (basti pensare al tema degli omicidi a sfondo satanico della Family di Manson o ai processi alle streghe di Salem). In questa ottica, i riferimenti cinematografici di Rob Zombie, che sono svariati, servono da strumenti, forniscono la sintassi, per così dire. La violenza di Peckinpah, le allusioni sessuali di “Nosferatu”, la brutalità di Tobe Hooper sono lenti attraverso guardare il paesaggio che Rob Zombie descrive. Non si tratta del semplice citazionismo di un fan dell’horror.

Come spesso accade, titoli sulla carta minori, penso a “The Haunted World of El Superbeasto” e “Werewolf Women of the SS”, finiscono con lo svelare di più su un autore di quanto non facciano i pezzi forti della sua filmografia. Mi sembra che questo sia piuttosto vero anche per Zombie, che ne pensi?

E.T.: Certamente. I film minori spesso sono quelli che lasciano più libertà creativa all’autore, che nel caso di Rob Zombie significa lasciare tranquillamente che una bomba esploda. “El Superbeasto” è davvero una conflagrazione! È la sua immaginazione al potere. È un film dissacrante, cialtrone, volutamente cretino eppure geniale. Non ha rispetto di nulla e allo stesso tempo è un atto d’amore per il cinema a i fumetti della sua infanzia.

“3 from Hell” porterà di nuovo al cinema i Firefly, già al centro di “La casa dei 1000 corpi” e “La casa del diavolo”. Quale credi sarà il cambio di rotta che verrà operato questa volta, considerando il filtro piuttosto diverso usato dal primo al secondo film?

E.T.: Dalle ultime notizie apprendiamo che “3 for hell” ha ricevuto una R-Rating dalla MPAA a causa della presenza di linguaggio scurrile, nudità, uso di droghe e violenza. Tutto questo non può che essere una buona notizia per i fan di Zombie! Ma, scherzi a parte, è difficile capire cosa aspettarsi: se c’è una regola che Rob Zombie segue sempre è non avere regole. Fino ad ora ogni suo film è sempre stato diverso da tutti gli altri, ha sempre scontentato qualcuno. Non è un regista che si preoccupa di essere accondiscendente con il pubblico e men che meno di farsi voler bene dalla critica. Segue semplicemente la sua ispirazione, lo dice apertamente: quello che gli interessa è fare prima di tutto quello che piace a lui.

Se è giusto parlare di una Factory Zombie, da chi è composta?

E.T.: Rob Zombie ha l’abitudine di circondarsi di collaboratori fedeli e per questo potremmo parlare di una sorta di factory che prende parte al processo creativo dei suoi film. Dal punto di vista degli attori potremmo fare i nomi di Sid Haig, Bill Moseley, Malcolm McDowell, Ken Foree e ovviamente di sua moglie Sheri Moon Zombie. Per quanto riguarda l’aspetto tecnico, frequenti sono le collaborazioni con Wayne Toth, addetto agli effetti speciali, con il montatore Glenn Garland e con il produttore Andy Gould.