La Mostra di Michele Anselmi per Cinemonitor | 15

Se nel western di Jane Campion “The Power of the Dog” non spunta neanche una Colt 45 o un Winchester, una sparatoria apre “Old Henry” di Potsy Ponciroli, il “microwestern” tutto al maschile, senza quote rosa, che Potsy Ponciroli ha portato fuori concorso. Siamo ai primi nel Novecento, per l’esattezza il 1906, dalle parti dell’Oklahoma. Un contadino cinquantenne, rimasto vedovo, appunto “il vecchio Henry”, lavora come un somaro per dare una vita decorosa al figlio adolescente che però scalpita perché non sa sparare. Un brutto guaio è in arrivo: sotto forma di un tizio gravemente ferito e con un borsello pieno di dollari, troppi per essere puliti. Il farmer sa che arriveranno altri uomini per recuperare quei soldi e si prepara al peggio, mostrando inattese abilità nel coprire le tracce e usare le armi.

Coprodotto da Tim Blake Nelson, attore eclettico come pochi e qui perfetto nel ruolo dell’agricoltore dal passato misterioso, “Old Henry” gioca nel titolo, in una chiave quasi “apocrifa”, con il vero nome di un leggendario bandito del West. Non a caso, si fa un gran discorrere di quella notte del luglio 1881, quando “Billy the Kid”, a soli 22 anni, fu freddato a Fort Sumner, in New Mexico, dall’ex amico Pat Garrett. Una sorpresa è nell’aria.

Il film, a basso budget, girato nelle campagne del Tennessee, gioca con alcuni stereotipi del genere, agitando temi come la redenzione e il perdono, ma con l’aria di non prendersi troppo sul serio. Accanto al protagonista ci sono attori bravi, come Stephen Dorff e Scott Aze, e posso solo immaginare il loro divertimento nell’indossare cappelli, stivali, spolverini, pistole (più parlata biascicata). Il sanguinoso “show down” finale ricorda un po’ quello del “Cavaliere pallido”; e del resto uno spirito tra crepuscolare e malinconico, da fine di un mondo, grava sugli eventi sin dalla prima inquadratura.

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Davvero non capisco i “buu”, le insofferenze, i “vergogna!” piovuti, alla fine di una proiezione per i critici, sul film ucraino “Vidblysk” (significa “riflesso”), in concorso al Lido. Il cinquantenne Valentin Vasyanovych impone allo spettatore una discreta prova di pazienza, ma è anche vero che siamo a una “Mostra d’arte cinematografica”, dove si confrontano linguaggi anche assai diversi tra loro. E per fortuna.

Nell’arco di 125 minuti, Vasyanovych impagina il racconto attraverso lunghe sequenze a inquadratura fissa, frontale, senza campi e controcampi sui visi, diciamo un po’ “alla” Tarkovskij, e solo di rado la cinepresa si mette in movimento. Non bastasse, ci sono tempi dilatati, estenuanti, quasi a sfidare l’insofferenza di chi sta guardando. Ma anch’essi corrispondano al doloroso sentimento racchiuso dal film.

È il 2014, all’epoca della guerra tra Ucraina e Russia, quando Putin, dopo un referendum da molti considerato illegittimo, rivendica l’annessione di Crimea e Donbass alla Federazione russa. A Kiev il chirurgo Serhiy sta per partire per il fronte, poco convinto. S’è separato dalla moglie, che ora sta con un soldato impegnato nei combattimenti, e vorrebbe occuparsi meglio della figlia adolescente. La prima scena è magnifica: gli adulti parlano preoccupati della guerra, mentre i loro figli, dentro sottili tute bianche, si sparano allegramente addosso proiettili di vernice.

Si muore davvero, invece, a non troppi chilometri di distanza, e il peggio, per il medico, arriva quando viene catturato dalle truppe russe. Umiliato, angariato, picchiato, Serhiy viene risparmiato perché utile al controllo dei prigionieri seviziati e forse in vista di uno scambio. Una volta liberato e tornato nella sua bella casa borghese con finestra panoramica, non sarà più l’uomo di prima. Forse migliore, di sicuro più capace di prendersi cura della figlia, di ascoltarla. Ma come confessare l’atroce, inconfessabile segreto che custodisce?

Le torture praticate dai russi sono rese con minuziosa ferocia, e viene da chiudere gli occhi di fronte a tale crudeltà; ma lo sguardo non è gratuito, a suo modo serve a spiegare – prima, durante e dopo – lo scorticato stato d’animo del protagonista. Certo “Vidblysk” non è una passeggiata, e magari alcune allegorie potranno risultare poetizzanti (quel piccione che si sfracella sul vetro, i cani inselvatichiti nel parco, i ricchi ucraini che giocano a Polo); ma si esce dal film disposti a condividere con i protagonisti della storia il lento ritorno a una specie di normalità.

Michele Anselmi