L’angolo di Michele Anselmi per Cinemonitor

Il cinema italiano adora l’architettura, si abbevera ad essa, ne sfrutta prospettive, intuizioni e costruzioni, ma in fondo disdegna gli architetti. Nel senso dei personaggi. Fateci caso. Si fa un po’ fatica, anche a compulsare Wikipedia, a trovare film che abbiano per protagonista un architetto. Che sia buono o cattivo, onesto o meschino, generoso o avido, sognatore o cinico. Certo, proprio oggi esce nelle sale “Dove non ho mai abitato” di Paolo Franchi (potete leggere la recensione qui sotto), e bisogna riconoscere che la vicenda ruota tutta attorno ai tormentati casi professionali e amorosi di due architetti cinquantenni alle prese con la costruzione di una sontuosa villa sul lago. Il titolo stesso evoca quel mestiere.
Ma, in generale, bisogna tornare indietro nel tempo. Gabriele Ferzetti, in “L’avventura” di Michelangelo Antonioni, si vanta di aver guadagnato quattro milioni di lire in un giorno e mezzo facendo calcoli per la costruzioni di una scuola; Nino Manfredi e Leslie Caron, marito e moglie in “Il padre di famiglia” di Nanni Loy, criticano aspramente la costruzione di un enorme quartiere romano in spregio a ragionevoli piani urbanistici; Alessandro Gassman, in “Il bagno turco” di Ferzan Ozpetek, fa un giovane professionista infelicemente sposato che, alla morte della zia Anita, eredita un hamam a Istanbul.
E poi, naturalmente, c’è il Rambaldo Melandri di “Amici miei”, splendidamente incarnato da un Gastone Moschin con barba e parrucchino. Ma volete metterlo, quell’architetto senza talento, ossessionato dalle femmine, con gli altri compagni di zingarate? Il Mascetti, il Necchi, il Perozzi, soprattutto il Sassaroli, che rifila al Melandri la moglie esosa, le figlie, la governante e pure il cane Birillo.
Sorride Eugenio Cipollone, architetto autentico, 50 anni, titolare con altri colleghi dello studio Insula: «Già, il Melandri, il più frescone dei cinque, certo uno che non fa fare una bella figura alla categoria. In effetti, al cinema, specie in quello italiano, l’architetto è sempre stato una figura debole: il fascinoso un po’ vanesio che piace alle feste, il cornificato seriale, anche la macchietta un po’ effeminata». E quindi? «La verità è che l’architetto è una figura debole anche nella realtà. A parte i cosiddetti archistar alla Piano o alla Fuksas, è raro trovare un architetto potente, capace di cambiare i destini della gente. Mentre trovi, e sono forse più interessanti da raccontare sul grande schermo, avvocati potenti, medici potenti, notai potenti, costruttori potenti». Per Cipollone, insomma, l’architetto ha stentato in Italia a diventare una figura da cinema: «Anche perché spesso viene visto come un sognatore costretto a scendere a compromessi col potere economico, con l’eccezione forse di Antonioni, da sempre affascinato da quel connubio estetico-esistenziale».
È quanto sostiene anche il docente universitario Giuseppe Bonaccorso. Annota in un suo saggio: «Gli architetti, nel cinema italiano, conservano spesso orgogliosamente un aspetto sognatore e poco incline alla concretezza. Sono professionisti problematici, disillusi, alla ricerca di una molla in grado di cambiare la loro vita. Le immagini quotidiane vengono narrate talvolta su uno sfondo di inenarrabile bellezza, oppure in situazioni di degrado ambientale notevole dalla quale l’architetto cerca di uscirne attraverso un’immersione totale nel progetto che possa condurlo a una redenzione personale e familiare».
In verità, talvolta sono descritti anche peggio. Come il losco e laido Garrone incarnato magistralmente da Claudio Gora in “La donna della domenica” di Luigi Comencini. Uno che finiva male, con la testa fracassata da un enorme fallo ai margini di una certa Torino bene, uno che apostrofava così la commesse al un bar: «Io ho il vento in poppa, lei le poppe al vento».
All’estero non è così. Certo, per quanto noto solo a un ristretto pubblico di esperti, “My Architect” di Nathaniel Khan, del 2005, ha riacceso i proiettori del cinema su un mestiere affascinante e contraddittorio, molto mitizzato negli anni successivi al Sessantotto, poi finito in un cono d’ombra. Viene da pensare a film come il francese “Parigi” di Cédric Klapisch, del 2008; a “The Architect” di Matt Tauber, con un tormentato Anthony la Paglia, del 2006; a “L’ultimo sogno” di Irwin Winkler, protagonista un Kevin Kline malato terminale alle prese con la costruzione di una casa perfetta per il figlio, del 2001. La malattia torna anche nel più famoso del pacchetto: “Il ventre dell’architetto” di Peter Greenaway, girato a Roma nell’ormai lontano 1987. Ricorderete, forse. Un architetto americano, interpretato da Brian Dennehy, che arriva nella Capitale con la giovane moglie incinta per organizzare una mostra sul settecentesco Etienne-Louis Boullée. Scopre di essere stato colpito da un tumore al pancreas: è l’inizio di una sfida con se stesso, sollevato dal pensiero del bambino che sta per nascere e dalla sensazione che le pietre della Città Eterna minimizzino la rilevanza di ogni destino individuale. Perderà via via il lume della ragione, fino a suicidarsi gettandosi dal monumentale e marmoreo Vittoriano.
Architetto di grido, sempre americano, è anche Alec Baldwin nel dimenticabile “To Rome with Love” di Woody Allen, affascinato dalla quotidianità colorita del quartiere di Trastevere ma poco incline a esercitare il proprio mestiere. Al contrario del Gary Cooper di “La fonte meravigliosa” di King Vidor, 1949, dove il personaggio chiamato Howard Roark, un architetto che fa saltare tutti i giochi per riprendersi la propria dignità, allude esplicitamente alla biografia di Frank Lloyd Wright. Altri anni, altro cinema, forse.

Michele Anselmi