Niente bare per gli immortali di Jarmusch. Il sonno diurno e il tempo trascorso al chiar di luna (quando c’è luna) si trascinano in noia sartriana, anestesia insopportabile tra vecchi dischi in vinile a roteare senza posa e calici di sangue 0 positivo, overdose di quasi eroina assunta per bocca. Dopo il brindisi, segue, inevitabile, l’orgasmo. Così sopravvivono i vampiri nel ventunesimo secolo. Così tentano di consumare il tempo: infinito, dilatato tra mura d’appartamento. Niente più morsi sul collo, niente più vittime. Solo sano sangue incontaminato comprato al supermarket: un laboratorio d’ospedale e alla cassa lui, medico affidabile, facilmente corruttibile. Eleganti bohèmiennes, Adam (Tom Hiddleston) ed Eva (Tilda Swinton), amanti immortali sopravvissuti, strascicano le loro non esistenze in letti separati, in paesi tanto lontani da non riuscire a sfiorarsi: lui a Detroit, lei a Tangeri. Sdraiati su un divano o in un letto sfatto, consumano agonie attimo per attimo.
Quello offerto da Jim Jarmusch in Only Lovers Left Alive (Presentato al 31 Torino Film Festval) è il ritratto di un dopo apocalisse. Le strade a Detroit si intersecano vuote, desolate. Nessuno vive più a Detroit. Solo la notte si anima qualche locale assordato di musica, tra chitarre ondeggianti su palchi fatiscenti, strumenti stuprati allo spasmo. Eva cammina tra i vicoli di Tangeri, ombra masherata da un foulard leggero, men che un’ombra. Sinuosa e crepuscolare, nessuno la nota perché non c’è nessuno a guardare. E anche se fosse, se esistesse un solo sguardo mortale per via, un solo uomo o una sola donna ebbri di vita vera, nessuno di loro riuscirebbe a ritagliare la sagoma del vampiro nella notte. Quelli regalati dal cineasta sono giochi di camera, sguardi estetici insistiti su corpi distesi, addormentati, avvinghiati. Un montaggio sapiente regala all’habitat, qualunque esso sia, la più totale inconsistenza. Dall’alto l’occhio elettronico insiste su dettagli percepiti da una lente d’ingrandimento. Saranno oggetti, gambe, braccia, visi, feticci morbosi a disegnare prospettive circolari e ubriache. Su di loro, ombra su ombra: dissolvenze incrociate a rincorrersi nell’ultima danza. Lo spettatore viene così trascinato in un paesaggio inumano dove cose e sembianze sono effimere e multiformi.
Neanche l’amore, il più vero, finanche l’eros, il più sfrenato, possono sanare le ferite del tedio, fermare il tam tam delle carcasse del tempo che cammina, gradino dopo gradino. Non bastano chitarre, cimeli d’epoca acquistati al mercato nero. Le corde tastate da mani impresse non danno più gioia, solo una lenta angosciosa spossatezza. Non sono sufficienti i libri, la conoscenza accumulata nel corso dei secoli, occhio onniscente che accatasta sapere a un solo sguardo da libri nuovi o meno nuovi. Jarmusch muove i suoi personaggi come marionette: angeli/demoni colti e raffinati in un mondo in disfacimento. C’è ancora tempo per una chiacchierata con l’ultimo vampiro anziano, un ormai autodistrutto, canuto Christopher Marlowe, qui interpretato superbamente da John Hurt. Quando giunge l’ora, l’istante in cui scarseggia cibo non contaminato, gli amanti immortali se ne infischieranno dell’intelletto e del tedio senza fine. La fame pesa così come l’idea di scomparire dal mondo, l’estremo mondo possibile, forse. E allora ben venga l’ultimo morso somministrato a una coppia d’innamorati. Basta poco per levare i calici a una ritrovata joie de vivre.
Chiara Roggino