L’angolo di Michele Anselmi
L’anno scorso l’Oscar per il miglior film andò, nello stupore generale, a “CODA. I segni dell’amore” di Sian Heder, pure remake di una commedia francese su una famiglia di sordomuti. Qualcuno se lo ricorda? Nessuno, credo. Ieri notte, meno a sorpresa ma sicuramente al di là dei pur rosei pronostici, con sette statuette su undici candidature ha stravinto “Everything Everywhere All At Once”, firmato dai “The Daniels”. Girato con meno di 25 milioni di dollari, lo strano film indipendente americano fino a un mese fa ne aveva incassati circa 105 in tutto il mondo, e magari la pioggia di Oscar appena piovuta faciliterà nuovi traguardi commerciali.
Di sicuro può festeggiare, in Italia, Andrea Romeo, titolare della società I Wonder Pictures, il quale sin da stamattina all’alba annuncia il ritorno in sala di “EEAAO”, l’acronimo alla moda per sintetizzare il titolo di quel film, più la soddisfazione personale per i due Oscar andati a “The Whale”, tuttora nei cinema con ottimi risultati (oltre 2 milioni di euro) e quello caduto sul documentario “Navalny”.
La riscossa asiatica era nell’aria, e certo i 9.660 membri dell’Academy ci hanno abituato a non usare il bilancino nel rifilare i premi, nel senso che se individuano un film considerato forte, significativo, innovativo, anche emblematico, concentrano su di esso il voto finale. Così è stato per “Everything Everywhere Once At All”, destinatario, appunto, di sette Oscar tra i più pesanti: miglior film, migliori registi e migliore sceneggiatura originale (Daniel Kwan e Daniel Schenert), miglior attrice protagonista (Michelle Yeoh), migliore attrice non protagonista (Jamie Lee Curtis) e miglior attore non protagonista (Ke Huy Quan), miglior montaggio. Non ha senso chiedersi, a questo punto, se la cervellotica e survoltata, per me molto tediosa, fantasia sul “multiverso” meritasse davvero tutti quei riconoscimenti; di fatto è stata percepita come “il film” dell’anno, quindi fare le pulci al verdetto punto per punto, soprattutto qui dall’Italia, temo sia pratica del tutto inutile.
Il collega Paolo Mereghetti ha scritto polemicamente che “forse bisognerebbe dividere gli Oscar in due: quelli che vengono dati cercando di rispettare le qualità in campo e quelli che invece vogliono contenere un messaggio, un qualche tipo di risarcimento o di indennizzo”. Ma la forza degli Oscar sta proprio lì: nel far arrabbiare anche i critici e talvolta il mondo del cinema, cercando la presunta novità che spiazza, anche a costo di fare arrabbiare il mondo delle major hollywoodiane o dei talenti acclamati.
Poi, nel merito, si può pure pensare che quattro allori al tedesco “Niente di nuovo sul fronte occidentale” di Edward Berger, a partire da quello per il miglior film internazionale, cioè non girato in inglese, siano troppi, in effetti così è; che l’avere snobbato “Argentina, 1985” di Santiago Mitre sia un’ingiustificata sottovalutazione; che “Gli spiriti dell’isola” di Martin McDonagh o “The Fabelmans” di Steven Spielberg avrebbero meritato ben altro e invece sono rimasti a mani vuote; che Cate Blanchett, nonostante le due statuette vinte in precedente, è straordinaria per finezza e temperamento in “Tár”, eccetera.
Quanto all’ex bellone Brendan Fraser, al quale è stato attribuito l’Oscar come migliore attore protagonista per “The Whale”, dove recita da obeso sotto un trucco prostetico giustamente premiato, la sua prova è certo toccante, non piagnona, virtuosistica, pure un po’ ricattatoria, di quelle che da sempre piacciono ai giurati dell’Academy e strappano l’applauso al pubblico uscendo dalla sala.
Come si sa, se avete sentito i radio giornali stamattina presto, gli italiani Alice Rohrwacher e Aldo Signoretti, l’una regista del corto “Le pupille”, l’altro truccatore del molto sottovalutato “Elvis”, si sono dovuti accontentare delle candidature. Dispiace, certo, ma non ne farei una piccola tragedia nazionale.
Sul fronte della diretta televisiva, stavolta non ci sono stati schiaffoni a effetto e incidenti vari, ma leggo che Hugh Grant s’è rivelato piuttosto “malmostoso”, magari per aderire al personaggio dell’inglese scettico e ormai un po’ distante da tutto, specie da Hollywood, dove passò i suoi guai per una storiaccia a sfondo sessuale.
Michele Anselmi