L’angolo di Michele Anselmi
Tutto come previsto, e non è detto che sia un male. Trionfa “Nomadland” alla 93esima edizione degli Oscar. La ballata “on the road” di Chloé Zhao, già Leone d’oro alla Mostra di Venezia 2020, ha conquistato le tre statuette che contano: miglior film, miglior regia e migliore attrice protagonista, cioè Frances McDormand, pure coproduttrice. Al Lido un certo scetticismo critico (non mio) avvolse questa storia toccante e a ciglio asciutto sui nuovi poveri americani che si mettono in viaggio sui loro camper, interpretata splendidamente dall’attrice di “Fargo”, al suo terzo Oscar. Magari, ora che il film arriva il 30 aprile su Star, all’interno di Disney+ senza costi aggiuntivi, e forse contemporaneamente in qualche sala cinematografica, ci sarà modo di valutarne appieno la qualità estetica, il palpito emotivo e la densità realistica (c’è un romanzo di Jessica Bruder alla base).
Come forse saprete, se avete ascoltato le cronache radiofoniche, l’Italia non ha beccato nulla, nemmeno sul fronte dei premi minori: snobbati i costumi e il make-up di “Pinocchio”, snobbata la canzone “Io sì” di Laura Pausini dal film “La vita davanti a sé”, snobbato il documentario creativo “Notturno” di Gianfranco Rosi. Nel giorno delle candidature, il 15 marzo scorso, il ministro Dario Franceschini aveva parlato di “una giornata felice per il cinema italiano”, inviando “un grosso in bocca al lupo” agli interessati: non è servito, a quanto pare.
La triplice vittoria di “Nomadland” si porta dietro anche un dato culturalmente rilevante: l’anglo-cinese Chloé Zhao, già ingaggiata da Hollywood per girare un kolossal sugli eroi della Marvel, è la seconda donna a incassare la statuetta per la migliore regia, essendo stata la prima Kathryn Bigelow con “The Hurt Locker” nel 2009. Qualcosa si muove anche da quelle parti, e d’altro canto, per la prima volta nella storia quasi centenaria dell’Academy, c’era un’altra donna a gareggiare nella stessa categoria, la britannica Emerald Fennell per “Una donna promettente”, alla fine destinataria di un premio per la migliore sceneggiatura originale.
Quanto alle interpretazioni, altra portata principale nella gran cena degli Oscar, qualche sorpresa c’è stata: se la statuetta alla magnifica Frances McDormand non ha destato malumori, in molti s’attendevano invece un riconoscimento postumo a Chadwick Boseman per “Ma Rainey’s Black Bottom”, invece il premio è andato all’83enne Anthony Hopkins di “The Father”, per una di quelle prove sicure, a effetto, che strappano l’applauso (un vecchio padre malato di Alzheimer); sul fronte degli attori non protagonisti, il nero Daniel Kaluuya s’è imposto come leader delle Pantere nere in “Judas and the Black Messiah”, dato per favorito alla vigilia nelle categorie principali, mentre la coreana Yuh-Jung Youn, la nonna del notevole “Minari”, da oggi in alcune sale italiane con Academy 2, ha divertito tutti duettando sul palco con Brad Pitt, pure coproduttore.
Sul fronte del miglior film internazionale, cioè non girato in inglese, l’Oscar è andato a “Un altro giro” del regista danese Thomas Vinterberg, quello di “Festen”, con Mads Mikkelsen protagonista. Una storia di alcolismo e redenzione. E certo ha commosso la platea il saluto di Vinterberg rivolto figlia Isa, scomparsa durante la lavorazione: “Volevo fare un film che celebrasse la vita e dopo quattro giorni è successo l’incredibile, un incidente se l’è portata via. Qualcuno che guidava guardando il cellulare. Abbiamo fatto questo film per te. Sei parte di questo miracolo”. Inutile dire che il premio per miglior film d’animazione è andato “Soul” di Pete Docter, lo stesso regista di capolavori come “Up” e “Inside Out”.
Chi esce sconfitto? Be’, l’ha presa bene, addirittura ballando, Glenn Close, di nuovo a mani vuote dopo la sua ottava nomination; mentre esce a mani vuote “Il processo ai Chicago 7” e il molto candidato “Mank” di David Fincher s’è dovuto accontentare di due statuette minori.
Leggo che lo show televisivo, diretto peraltro da Steven Soderbergh, non avrebbe soddisfatto le attese di chi si aspettava meno fervorini politici e più “cine-glamour”, insomma la serata sarebbe stata “troppo mesta” (?); qualcuno ha avuto da ridire, magari a ragione, anche sulla scelta di decretare prima il miglior film e poi i migliori attori. Di sicuro zio Oscar, facendo di necessità virtù o forse per sincera convinzione, ha deciso di puntare su donne, neri e asiatici, in questo assecondando il nuovo clima che si respira negli Stati Uniti dopo la fine dell’era Trump. Senza dimenticare che, nell’anno della pandemia, Hollywood ha dovuto scendere a patti con le nuove piattaforme, senza le quali, in mancanza dei big da grande schermo, non ci sarebbero stati candidati di un certo peso da mettere nel mazzo.
Michele Anselmi