Mentre scrivo questo articolo i bookmakers che speculano sugli Oscar per il miglior documentario stanno chiudendo le scommesse. La puntata di “Fuocoammare”, diretto da Gianfranco Rosi, coraggiosamente sostenuto da Rai Cinema e dall’Istituto Luce, viene pagata sino a 34 volte contro  “O.J. Made in America”, il cui rischio è valutato meno di due. Secondo in gara, viene dato “I’m Not Your Negro”. Poi ci sono altri due concorrenti, anche loro davanti all’italiano. Diciamoci la verità: del premio ai documentari non è mai importato a nessuno, ma quest’anno è un’altra storia, vista la posta in gioco e la caratura dei concorrenti. Molti nostri registi hanno vinto la celebre statuetta per il miglior film straniero, mentre l’impresa non è mai riuscita nella sezione documentario. Verrà il giorno, lo spero, in cui queste distinzioni di lana caprina (film non di lingua inglese, attori non protagonisti, fiction, documentari, etc.) non avranno più senso e si parlerà solo di cinema. Intanto però dobbiamo fare i conti con la realtà. “O.J.” racconta per quasi otto ore l’incredibile storia della star del football americano, che nel 1994 pare abbia assassinato sua moglie e un amico, ma che una giuria popolare (formata  in maggioranza da afroamericani come lui) ha mandato assolto. Da tenere presente che mentre lo scorso anno i candidati neri alla statuetta d’oro (d’oro lo era davvero nei primi tempi) erano pressochè inesistenti, il che ha fatto divampare polemiche a non finire, quest’anno sono equamente rappresentati. Sulle gesta di Orenthal James Simpson è già stata prodotta una serie televisiva di successo e ora il documentario trionfa in molte sale, mentre “Fuocoammare”, in America “Fire at sea”, lo trovi col lumicino. “Fuocoammare” si regge su un impianto di tipo neorealista e dunque poco spettacolare. Invece “O.J.”, costato esponenzialmente assai di più, è spettacolo allo stato puro, dunque più popolare. Quanto al secondo piazzato nella sala scommesse, “I’m Not Your Negro” ha appena vinto il Premio del pubblico a Berlino. Diretto dal regista haitiano Raoul Peck, anch’egli di colore, il filmato nasce da un’idea di James Baldwin, lo scrittore e attivista afroamericano, che avrebbe voluto trasformarla in un libro, dedicato a tre grandi combattenti neri, tutti assassinati: Medgar Evers, Malcolm X e Martin Luther King. Baldwin, morto nel 1987, non ha potuto completare l’opera e ora c’ha pensato Peck. Il suo è un atto di accusa che ti prende al cuore. Definito dal Guardian “il più coraggioso film americano sui diritti civili”,  anche questo titolo non può che dispiacere a Trump. Ricco di immagini violente e crude, è meno hollywoodiano di “O.J”., ma avrà vita più duratura, perché rappresenta un affresco storico di monumentale importanza. Rotten Tomatoes, il sito di cinema tra i più seguiti, lo premia col 98% di consensi critici e così ne scrive: “incendiario spaccato del razzismo in America, doveroso memento di quanto percorso dobbiamo ancora fare”. Parole amare per l’inquilino della Casa Bianca, miele per i votanti. Il terzo competitor è “13th”. Diretto da Ava DuVernay, anche lei regista di colore, già autrice di “Selma, la strada della libertà”, che fu candidato all’Oscar nel 2015. Distribuito da Netflix, il documentario denuncia l’applicazione discriminatoria del 13° emendamento della Costituzione americana ai danni della popolazione nera. A questo punto Trump penserà che il cinema ce l’abbia proprio con lui. Infine quarto rivale di “Fuocoammare” è “Life, Animated” di Roger Ross Williams, altro regista di colore. Firma il racconto straziante di un ragazzo autistico, Owen Suskind, in lotta per trovare il modo di comunicare con il mondo. La chiave di volta per uscire dal suo isolamento qual è? I cartoni animati della Disney. Fosse vivo il vecchio Walt avrebbe già vinto. A poche ore dalla serata della premazione qualche leghista in cerca di notorietà dirà che il nostro Rosi, unico bianco tra 4 registi di colore, non può farcela. E magari dirà che i razzisti non sono più i bianchi, ma i neri.  Se vuole essere smentito, bussi alla mia porta. Ho insegnato per vari anni in un’università di soli neri a Washington, D. C. e razzisti non ne ho mai incontrati. In realtà la sfida è un’altra: mentre i nostri film premiati nel passato concorrevano nella sezione riservata agli stranieri e dunque non si misuravano contro i kolossal americani, nel documentario non c’è rete di protezione. Pensare che Cinecittà possa battere Hollywood è come sperare che l’esercito nostrano possa competere contro le armate nucleari. Davide contro Golia ha vinto nella Bibbia. Che possa vincere anche a Los Angeles sarebbe un sogno.

Roberto Faenza