“Padrenostro” di Noce forse
era meglio lasciarlo a casa
Fa solo simpatia “The Duke”

La Mostra di Michele Anselmi per Cinemonitor / 4

Forse era meglio lasciarlo a casa, nel senso di non prenderlo, quanto meno in concorso. Trattasi di “Padrenostro” di Claudio Noce, il primo con i colori italiani a scendere in campo qui al Lido per il Leone d’oro. Immagino che abbia contato la presenza di Pierfrancesco Favino, l’attore del momento, pure coproduttore insieme a Sky, che distribuisce. Eppure si fa fatica a capire perché. Ma andiamo per ordine.

Noce, classe 1974, dice “non è un film sugli anni di piombo ma sull’archetipo del padre, su una generazione di bambini invisibili, avvolti dal fumo delle sigarette degli adulti”. Tuttavia la storia pesca in fatti reali, crudeli, avvenuti in quella fetida stagione “ideologica” legata agli anni Settanta. Il padre del regista, Alfonso, all’epoca vicequestore a Roma, fu obiettivo di un commando dei Nuclei armati proletari nel dicembre 1976:  se la cavò per il rotto della cuffia (rimasero sul terreno un poliziotto e un attentatore). Spira un’aria di famiglia, dunque, in questo film che parte da quella sparatoria, cambiando nomi e situazioni, per raccontare un sentimento dolorosamente intimo, diciamo pure autobiografico.

C’è un bambino di dieci anni, Valerio, biondo e solitario, dedito a fantasticare, che vede tornare a casa dall’ospedale, miracolosamente, il padre giudice colpito da tre colpi di Kalashnikov alla schiena. Niente può essere come prima in famiglia; specie il ragazzino sprofonda in un mutismo aggressivo, e solo l’incontro con il misterioso Christian, di poco più grande di lui, sfrontato, ribelle e randagio, sembra ridargli il sorriso. Sarà un incontro casuale? Intanto l’estate incombe: così il giudice sopravvissuto porta moglie e figli giù in Calabria, dov’è nato, per una vacanza ristoratrice, anche per sfuggire a quel clima di cupa tensione. Ma certi fantasmi sono duri a scomparire…

Dopo quella di Andrea Segre con “Molecole”, anche questa di Noce è una sorta di amorosa lettera a un padre silenzioso e magnetico insieme. Peccato che “Padrenostro” non trovi lo stile giusto, tanto meno la misura espressiva, per raccontare questa sorta di pacificazione tardiva. Troppe scene madri a effetto, troppi soprassalti, troppe situazioni urlate, troppa musica solenne da oratorio sacro (il titolo rimanda), troppe indulgenze turistiche da Film Commission. Arriva pure il momento Salvatores con “Impressioni di settembre” della Pfm ripetuta due volte, usando lo stesso crescendo emotivo in vista del mitico refrain; e a non dire della sparatoria in flashback al suono di “Buonanotte fiorellino” di De Gregori. Benché incisa sulla pelle viva dell’autore, la vicenda procede ondivaga e sbilenca, suggerendo a tratti che Christian sia un amico immaginario, diciamo molto enfatizzando e poco interiorizzando. Nondimeno, il film ha trovato parecchi estimatori qui al Lido. I due ragazzini sono incarnati da Mattia Garaci e Francesco Gheghi, la mamma in pena è Barbara Ronchi, la star Favino porta i basettoni, le cicatrici sulla schiena e parla in calabrese stretto, ma direi che abbia fatto di meglio al cinema.

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Se “Padrenostro” è pronto per uscire, difficilmente vedremo nelle sale italiane “Il discepolo”, secondo titolo in gara della giornata: viene dall’India e porta la firma del giovane Chaitanya Tamhane. Parecchi colleghi si sono assopiti in sala e certo l’argomento più risultare ostico, benché si parli dell’universale dilemma tra talento e passione. Siamo a Mumbai, nel 2006: il promettente musicista Sharad Nerulkar ha consacrato sé stesso allo studio e all’esecuzione della musica tradizionale indiana, a suo modo “classica”, secondo le regole di un antico canone melodico/vocale chiamato rāg.

L’elemento religioso, se volete spirituale, è molto presente in questa nobile musica millenaria di origine indostana, anche se il protagonista, discepolo del venerabile maestro di cui si prende amorevolmente cura ricevendo in cambio sferzanti critiche, sembra vacillare di fronte al rigore ascetico contemplato: infatti lo vediamo spesso masturbarsi di fronte a dei video porno nel silenzio della sua cameretta.

“La tecnica si impara, la Verità no” teorizza una voce femminile registrata. Sharad mobilita tenacia e perseveranza, anche un coriaceo egoismo, per avvicinarsi alla perfezione esecutiva, ogni volta dovendo fare i conti con un’ostica realtà. E intanto una sconosciuta ragazza si fa strada in un talent-show televisivo, partendo da quella stessa musica per trasformarsi in una specie di Madonna indiana.

C’è qualcosa di Nanni Moretti nelle lunghe sequenze  notturne che mostrano Sharad alla guida della sua moto, a velocità costante, ripreso da davanti, mentre ascolta in cuffia antichi insegnamenti, come a depurarsi delle umiliazioni e delle inadeguatezze, alla ricerca di un equilibrio forse impossibile tra ispirazione e successo. L’attore che lo incarna, Adidya Modak, è un musicista vero e si sente, anche se immagino che qua e là finga di sbagliare qualcosa nel canto per aderire al personaggio infelice.

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Nessuno ha dormicchiato, invece, di fronte a “The Duke”, qui fuori concorso, che uscirà con la Bim. Trattasi di commedia spiritosa ispirata a un fatto reale, avvenuto il 21 marzo del 1961. Quella notte un famoso quadro di Goya che ritrae il Duca di Wellington, vincitore a Waterloo su Napoleone, scomparve dalla National Gallery di Londra. Valeva all’epoca 140 mila sterline, una cifra corrispondente a circa 3.500 canoni televisivi annuali.

Che cosa c’entra la tv? Fu un sessantenne di Newcastle, tal Kempton Bunton, indocile e arguto, colto e antimilitarista, assai allergico alla politica conservatrice del premier Harold MacMillan, a organizzare quel “colpo”, chiedendo in cambio del dipinto sottratto una serie di misure di welfare a vantaggio degli anziani. A partire, appunto, dal canone televisivo (oggi non lo paga chi ha più di 75 anni).

Roger Mitchell è il regista di “Notting Hill”, quindi sa come catturare lo  spettatore. Il tono generale è umoristico, la musica pimpante, si cita “Il giardino dei ciliegi” di Cechov, occhio alla sorpresa che non t’aspetti. Jim Broadbent è istrione quanto basta nel restituire il tenero pasticcione socialista dalla battuta pronta: specie nel processo finale trasformato quasi in una pièce teatrale con applausi incorporati. Helen Mirren, imbruttita per renderla moglie brontolona, duetta con lui allegramente secondo le modalità di una commedia “all britsh” a sfondo sociale, di quelle stereotipate che non lasciano traccia ma valgono il prezzo del biglietto.