“Pagglait” è il nuovo prodotto Netflix in lingua Hindi, un dramedy che si pone a cavallo tra la vita e la morte. Se normalmente però si parte dal vivere e si giunge alla fine, nel film diretto da Umesh Bist avviene l’esatto contrario: dalla morte, si perpetuerà il rito della vita, con quel fondamento di spiritualismo e misticismo che caratterizzano la religione induista.
La storia è quella di Sandhya (Sanya Malhotra), una giovane donna che sta vivendo il primo giorno di un lutto terribile: la prematura scomparsa del marito Astik l’ha lasciata in balia della famiglia di lui; con loro deve condividere una grande casa sempre affollata, i doveri di vedova che continua ad avere e tutte le decisioni che gli altri prendono per lei, pensando di poter controllare al meglio la sua vita. Ma Sandhya non è distrutta, non piange fino all’ultima delle sue lacrime, non si chiude in camera pur di non vedere gente. Al contrario, sente un irrefrenabile impulso alla vita, impulso che le si presenta inizialmente con voglia di mangiare golgappa – il tradizionale street food indiano – e di bere Pepsi, per poi evolvere, nel corso del film, in qualcosa di molto più grande per la giovane: nuove consapevolezze e un irrefrenabile bisogno d’indipendenza. Riuscirà la famiglia della donna ad accettare il profondo cambiamento che vivrà quest’ultima nei tredici giorni di lutto del marito?
“Nessuno chiede alle donne cosa davvero vogliono”. Il finale del film è sicuramente la parte che più di tutte stimola una riflessione più profonda del pubblico, che fino a quel momento si è adagiato e adeguato ad una narrazione lenta e sostanzialmente statica. Se infatti una serie di avvenimenti daranno lo ‘scossone’ finale ribaltando la situazione, questa sarà probabilmente la prima volta che lo spettatore potrà dirsi veramente coinvolto in quello che nel film sta accadendo; ma avrà dovuto aspettare – se lo farà – quasi due ore. Uno dei limiti di “Plaggait” risulta essere l’eccessiva lunghezza di molte scene, alcune delle quali superflue alla narrazione della storia. Una trama di base interessante e, in parte, anche originale, ma banalizzata da alcuni aspetti posti in essere senza alcuna ragione particolare, se non quella di spingere verso una teatralizzazione forzata. In alcuni momenti, il pubblico potrebbe avere la sensazione di guardare una soap opera piuttosto che un dramedy – che di comedy non ha molto – mentre in altri potrebbe sentirsi disorientato nel tentativo di dare un senso a ciò che sta effettivamente accadendo.
Più che una trama confusa e sconnessa, lo spettatore potrebbe invece apprezzare i richiami alla cultura induista, come il rito funebre caratterizzato dallo spargimento delle ceneri nel Gange, o le atmosfere e le vicissitudini di una ‘tipica’ casa indiana, in cui gli odori delle spezie si mescolano a colori brillanti e ad un senso profondamente religioso della vita, anche se questi rimangono elementi secondari alla vicenda e, quindi, minimizzati.
Chiara Fedeli