L’angolo di Michele Anselmi | Scritto per “Cinemonitor”
La formula americana giusta, quasi un precetto nel mondo dei bodybuilders, sarebbe in realtà “No pain, no gain”, e cioè più fatica fai (pain), più massa muscolare metti su (gain). Ma c’era già un film sul tema che si chiama così, del 2005, diretto da Samuel Turcotte, e così Michael Bay, il quasi cinquantenne regista di action-movie come “The Rock”, ha ribattezzato “Pain & Gain” la sua vacanza d’autore tra un “Transformers” e l’altro. Sì, una vacanza. Per riuscire a girarlo, in 42 giorni e con un budget di soli 25 milioni dollari, poi salito a 26, ha dovuto convincere parecchie gente a Hollywood, e non sorprende che alla fine il film abbia incassato appena 50 milioni di dollari sul mercato nord-americano, niente rispetto agli standard abituali. Ma va bene così. Magari “Pain & Gain”, il cui sottotitolo italiano recita “Muscoli e denaro”, è l’inizio di una nuova carriera per Bay, un cineasta della stessa risma di gente come Zack Snyder e Joss Whedon, abituati a fare film fracassoni per ragazzi tratti dai fumetti.
“Pain & Gain” è tratto da una storia vera, finita piuttosto male, con due cadaveri fatti a pezzi e due condanne a morte. Il tutto accadde a Miami, Florida, tra il 1994 e il 1995, e non sorprende che la vicenda, grottesca e granguignolesca insieme, abbia sollecitato la curiosità di Bay. In fondo il film, senza rinunciare una spettacolarità survoltata, è un sofisticato atto d’accusa nei confronti del Sogno Americano, diciamo della sua degenerazione pompata dal culto del fitness e dall’invidia sociale.
Montaggio frenetico, colori pastello e molto neon, uno stile finto kitsch che i critici americani hanno definito «tra film school e guerrilla movie», con qualcosa di quel “Spring Breakers” di Harmony Korine che tanto fece eccitare i cinefili l’anno scorso alla Mostra di Venezia. E tuttavia Bay non usa la storia criminale, desunta dai reportage del “Miami New Times”, per mostrare quanto è bravo. La stupidità dei tre protagonisti, maldestra quanto abissale, immersa in un’abiezione morale aggravata dal succedersi degli eventi, viene restituita con ritmo incessante, anche attraverso un uso spregiudicato della voce fuori campo.
La vicenda. Daniel Lugo (Marc Wahlberg) è un bodybuilder che lavora presso la palestra “Sun Gym” di Miami. Ha idee, grinta, sa come allenare fanciulle sexy, pensionati in tuta e cinquantenni flaccidi. Ma soprattutto è stanco di essere povero mentre vede attorno a sé tanta ricchezza. Il piano? Rapire il commerciante ebreo Victor Kershaw (Tony Shaloub) conosciuto in sala pesi. L’ometto è antipatico, arrogante, presuntuoso, insomma da ripulire. Come? Sequestrandolo e mettendolo sotto torchio, affinché, con “regolare” contratto notarile, rinunci a tutti i suoi beni. Nell’impresa, che parte subito male, Lugo coinvolge il collega nero Adrian Durbal (Antony Mackie) e il gigantesco ex galeotto Paul Doyle (Dwayne Johnson): il primo, a forza di steroidi, non riesce più ad avere un’erezione; il secondo parla solo di Gesù ma continua a sniffare cocaina.
Il bello agghiacciante del film, lungo oltre due ore e scaltro nel rilanciare ogni volta, in un mix di esibita crudeltà, una po’ alla maniera “Fargo” e “Burn After Reading – A prova di spia” dei fratelli Coen, è che è tutto vero, sicché in più di un’occasione interviene una didascalia a ricordarcelo. Come nel caso di quelle mani segate e messe a cuocere nel barbecue in giardino, di fronte a una fanciulla nera che osserva incuriosita pensando siano gustose braciole, per cancellarne le impronte.
È una Miami già remota, ben diversa da quella che siamo abituati a vedere nelle serie tv “Csi Miami” e “Dexter”, quella che Bay ricostruisce con scrupolosa cura: automobili, pettinature, abiti, arredi, scarpe, tute e canottiere. Ne esce il ritratto di tre gasati fregati dalla propria insipienza, e insieme la follia diffusa di un “american way of life” dove nessuno in fondo è innocente. Forse solo il detective in pensione Ed DuBois, incarnato con saggia determinazione da Ed Harris: l’unico che capisce cosa sa succedendo e si muove di conseguenza.
Si ride vedendo “Pain & Gain”, perché è una commedia, per quanto nera, anzi nerissima. E tuttavia si esce dal film ricordando che, dettaglio più dettaglio meno, le cose andarono davvero così, come attestano, sui titoli di coda, le vere facce dei “protagonisti”. La morale? Pomparsi così di brutto fa male, anche nel Paese delle Opportunità.
Michele Anselmi