Conte è davvero il Matisse
della canzone italiana?
Applausi per il docu-film

La Mostra di Michele Anselmi per Cinemonitor / 12

Diciamo che una punta di affettuosa agiografia condisce “Paolo Conte. Via con me”, il documentario-ritratto di Giorgio Verdelli accolto tra applausi scroscianti alla Mostra del cinema (era tra i fuori concorso “non fiction”). A un certo punto Roberto Benigni, uno dei numerosi intervistati, lo definisce “il Matisse della musica italiana”, dopo aver sussurrato che con Conte, promosso naturalmente a Principe della canzone, “tutto si slarga e s’infinita: inobliabile”. Mentre Vinicio Capossela usa quest’altra metafora: “Se la lucertola è il riassunto del coccodrillo, Conte è il riassunto della musica italiana”. Meno enfatica, a suo modo più simpatica, la testimonianza di Jovanotti, che rifà alla chitarra un brano e invidia terribilmente al musicista di Asti un verso di “Bartali”, quello che recita: “C’è un po’ di vento / abbaia la campagna / e c’è la luna in fondo al blu”.
Come sempre, Verdelli ha fatto un ottimo lavoro: il suo docu-film, 100 minuti, in sala per tre giorni a fine settembre (28, 29 e 30) e subito dopo sulla Rai, è gradevole, ben congegnato, scorre via leggero, ricolmo com’è di materiale inedito attinto all’archivio personale di Conte, assai curato nel montaggio delle canzoni “dal vivo”, spesso restituite nelle più diverse versioni, in modo da far risaltare i cambiamenti introdotti nel tempo.
Oggi Conte ha 83 anni, doveva venire qui al Lido per promuovere il film, ma il medico gli ha consigliato di restare a casa, sicché ha spedito un messaggio video nel quale, riferendosi ad alcuni degli artisti intervistati, ammette che gli fa un particolare piacere “godere del rispetto di tanti colleghi”. Così è.
Naturalmente tutti lo definisco “Maestro”, a testimonianza dell’influenza che il baffuto avvocato di Asti, già trombonista, poi vibrafonista e infine pianista jazz, ha esercitato in oltre mezzo secolo di musica: prima come autore di straordinarie canzoni composte per altri; ma soprattutto, dagli anni Settanta in poi, come esecutore di sé stesso, fino a diventare un artista-personaggio apprezzato in tutto il mondo, il cosiddetto “cantore della provincia italiana”.
In effetti Conte piace a tutti: donne e uomini di ogni età trovano nelle sue atmosfere fumose e romantiche, intrise di un pizzico di ironico maschilismo misto a vibrante nostalgia, la conferma di una “italianità” a suo modo universale, non contaminata dall’impegno politico, radicata in una memoria che sorride sorniona e accattivante. Piacendo molto anche ai francesi che notoriamente “s’incazzano” ma non in questo caso: ascoltare per credere le testimonianze di Jane Birkin e Patrice Leconte, i quali non capiscono l’italiano ma confessano di essere stati come stregati dal suono di quelle parole. Insomma, Conte un po’ come Mastroianni: due tipi italiani parecchio “cool”.
Lo stesso Conte fa da padrone di casa nel film di Verdelli: si confessa, si schermisce, a tratti si prende un po’ in giro, ricorda, commenta, ringrazia, per un attimo sembra quasi commuoversi nel ricordo della mamma. C’è anche, a introdurre un certo mondo “contiano”, una Topolino amaranto che sfreccia nelle campagne dell’Astigiano, ripresa dall’alto, in modo che lo spettatore si cali subito nell’atmosfera evocativa, molto “du-du-du-rudù”.
Tutto piacevole, ben assemblato, sicuramente interessante sul piano della ricostruzione di una singolare carriera artistica. Nel finale l’uomo delle milonghe, dei gelati al limon, del Mocambo eccetera dice che gli piacerebbe essere ricordato non solo per la musica delle sue canzoni ma anche per le parole, oltre che per il (fragoroso) kazoo da lui usato per rifare il suono della tromba. E qui, senza nulla togliere al Conte paroliere, così ammirato e venerato, anzi ormai (purtroppo) quasi indiscutibile, ci sarebbe però da ricordare che i testi di brani indimenticabili come “Insieme a te non ci sto più”, “Azzurro” o “Messico e nuvole” portano la firma di Vito Pallavicini, da Vigevano, purtroppo scomparso nel 2007.