L’angolo di Michele Anselmi 

C’è una frase che sarebbe meglio non dire più e che molti invece continuano a usare, magari senza valutarne la stupidità: “Non ricordo dove ho messo le chiavi di casa, mi sa che c’ho l’Alzheimer”. Non è mai così. Chiunque abbia avuto un malato di Alzheimer in casa, a me è successo con mia madre, sa che di colpo un interruttore smette di funzionare, un marginale evento meccanico anticipa il crollare della diga cerebrale e poi comincia l’inferno, percepito nitidamente da chi è colpito. L’abbiamo visto in film come “Amour”, “Lontano da lei”, “Still Alice”, “Una sconfinata giovinezza”, il più recente “The Father – Nulla è come sembra”; adesso, su un piano diverso, non di reinvenzione sceneggiatoria, ci prova l’attore livornese Paolo Ruffini, classe 1978, autore con Ivana Di Biase di “PerdutaMente”, un documentario di 78 minuti che esce nelle sale per tre giorni con Luce Cinecittà a mo’ di evento speciale (14-15-16 febbraio), in vista, immagino, di un ravvicinato passaggio televisivo.
Prodotto dallo stesso Ruffini insieme a Nicola Nocella, Antonino Moscatt e Angelisa Castronovo, il film propone un titolo “a chiave” che è anche un gioco di parole tra “perduta mente” e “perdutamente”. E forse una riflessione in sottofinale, detta dallo stesso Ruffini, ne illumina meglio il senso: “Il malato di Alzheimer è l’innamorato più sublime: non sa più chi sei ma ti ama perdutamente”. Sarà vero? Non saprei, ma suona bene.
Di sicuro l’autore, non nuovo ad argomenti considerati delicati, penso al suo precedente “Up & Down – Un film normale”, si mette in discussione e in scena sin dalle prime sequenze: è lui a condurre questa sorta di indagine sull’atroce malattia degenerativa (circa 1 milione di malati oggi in Italia) andando a scovare nelle più diverse città dello Stivale casi familiari, testimonianze, confessioni, ricordi, fotografie. Già perché l’Alzheimer non demolisce solo chi ne soffre, ma anche, sia pure in modo diverso, chi si occupa in famiglia di quei malati, spesso isolati da tutto o quasi, persi nella loro sterminata smemoratezza.
Partendo dal lucido struggimento di Franco per la sua Maria Teresa, il regista conduce i suoi incontri con dedizione gentile, certo per capire, ma in fondo – si direbbe – per curare sé stesso, lenire quell’impasto di impotenza, terrore e mistero che la demenza senile si porta dietro.
Ecco Nina che crede di avere ancora 22 anni e prova a occuparsi del figlio con ritardo mentale; ecco Pina che ricorda a memoria una canzone cara al figlio ucciso da un tumore; ecco Enrica, ancora capace di vivere un’esistenza relativamente normale in famiglia, ma consapevole di ciò che l’aspetta; ecco Monica, pianista che riesce ancora a esprimersi alla tastiera insieme al marito premuroso Ludovico, pure lui musicista; ecco Michela, Luca, Luciano, Dino e Anna Maria, Luisa e Raimondo, altri ancora…
“L’Alzheimer è la morte in vita” sentiamo dire a un certo punto da un marito schiantato dalla progressiva “assenza” della moglie. E tuttavia Ruffini, pur consapevole della devastazione che quel morbo opera sulla testa, i visi, gli occhi e i corpi, mantiene uno sguardo a ciglio asciutto, provando anche a sorridere; come quando intervista Lino Banfi, il cui vecchio film “Vieni avanti cretino” sembra essere molto apprezzato, con effetti positivi di “risveglio”, dai degenti di una clinica specializzata dalle parti di Gorizia.
Carico di anelli, braccialetti e collane, Ruffini entra in sintonia, quando ci riesce, con quei malati, alcuni dei quali non così avanti negli anni; parla schiettamente, fa regali, li abbraccia, prova ad estrarne pensieri, memorie, emozioni. Ogni tanto un sospetto di “poeticismo” s’affaccia, specie quando il discorso sull’Amore (uso apposto la maiuscola) sembra poter “curare” gli effetti di quel progressivo appannamento. A tutti Ruffini regalerà un diapason, incluso al vecchio padre che forse comincia a perdere qualche colpo; quasi a dirci che con quello strumento sarà più facile, forse, ritrovare l’intonazione con la vita.
PS. Il film dice una cosa vera, insieme dolorosa e rasserenante. La morte restituisce quasi sempre una sorta di dignità ai lineamenti del viso, li strappa alla deformazione indotta da anni di bieca malattia.

Michele Anselmi