Un interessante dossier di BoxOffice (forse il solo periodico attento all’economia del cinema) fa il punto della situazione sul nostro comparto negli ultimi vent’anni. È un invito a riflettere che sono cambiate così tante cose da non riconoscerci più nel passato. E forse non capire neppure troppo bene verso quale futuro stia andando la nostra industria audiovisiva, la quale viaggia in acque agitate, purtroppo parecchio più degli altri paesi europei. Negli ultimi anni, dalla Francia alla Germania alla Spagna, la produzione e la distribuzione hanno saputo rinnovarsi con maggiore lungimiranza di noi. Tanto per cominciare vent’anni fa i film venivano realizzati con la pellicola, oggi è il regno del digitale, sia in fase di ripresa che di montaggio. Vent’anni fa il mercato si reggeva esclusivamente sulle monosale, largamente disseminate nei centri storici. Oggi sono una rarità e sempre di meno troviamo schermi nel cuore delle città. Prevalgono i multiplex, molti dei quali operanti fuori dai centri urbani. Vent’anni fa numerose città di provincia avevano almeno uno schermo attivo. Oggi sono una mosca bianca e se nelle vicinanze non ha aperto un multiplex la maggior parte dei cittadini ha perso l’abitudine al cinema. Al posto hanno trovato un bingo o un supermercato. Ne consegue che il numero di spettatori abituali nel corso del tempo sia notevolmente diminuito: oggi si sta assestando attorno a una media di 100 milioni l’anno. In Francia sono più del doppio e mentre da noi si litiga per ridurre il costo dei biglietti almeno il primo mercoledì del mese, lassù si coltivano i giovani con tariffe minime.

Da noi si stenta a crescere perché, mentre altrove regge bene anche la stagione estiva, da noi alle poltrone si preferisce una sdraio al mare. Accade pertanto che i film si concentrino nei soli mesi autunnali e invernali, con una concentrazione di titoli folle, sino a dieci a settimana, col risultato che nelle sale resistono solo i blockbuster e tutti gli altri battono in ritirata dopo poche proiezioni, portando a casa incassi sempre più magri. Resta incomprensibile l’atteggiamento di distributori ed esercenti che stanno costruendo l’estinzione della categoria con le proprie mani, senza rendersi conto che sarebbe più ragionevole calmierare le uscite e mettersi attorno a un tavolo per cercare una programmazione con un briciolo di razionalità. Vent’anni fa il cinema cosiddetto di qualità veniva finanziato sino al 70% dal Fondo di garanzia, ovvero dal Mibac. Oggi è stato sostituito quasi interamente dal tax credit, che però è meno generoso e quando va bene arriva al 30% effettivo del budget complessivo.

Quanto al genere dei film in questo ventennio abbiamo visto i cosiddetti cinepattoni passare dall’altare alla polvere, quasi prossimi all’esaurimento. Il filone giovanil-generazionale non sta molto meglio, prossimo a scomparire in un breve lasso di tempo: dalla fortuna delle notti prima degli esami sino alla mancanza di spazio per la vituperata generazione z. Per fortuna c’è invece stato un buon ricambio generazionale con l’arrivo in scena di una nuova classe di attori, tra i venti e i trent’anni, che oggi va per la maggiore. Anche se a onor del vero noi non abbiamo un vero star system come hanno invece sia gli americani che i francesi, i quali possono contare sulla garanzia di un notevole numero di star il cui solo nome è in grado di portare la gente al cinema. Da noi nessuno dei nuovi attori, maschi o femmine, oggi assicura un risultato al box office. Al momento l’unico nome seguito dal grande pubblico è Checco Zalone, ma è da vedere se riuscirà a reiterare l’exploit degli ultimi incassi. Intanto le glorie di qualche anno fa inanellano flop uno dietro l’altro, dimostrando che il nome non conta più. Come pure non conta più nulla aver vinto un festival o qualche David di Donatello. Anzi, si potrebbe dire che quando il pubblico sente parlare di premi o di buone recensioni si volta dall’altra parte, esattamente come fa con la classe politica, contro la quale prevale la diffidenza. Succede così che film premiati a Cannes, a Berlino o a Venezia vengano snobbati a prescindere dalla loro qualità, solo perché insigniti di una onorificenza che molti ritengono il prodotto di inciuci delle solite giurie. Lo stesso discorso vale per la categoria dei registi: neppure un premio Oscar è garanzia di un successo.

Il pubblico sceglie volta per volta e diffida dei maestri riveriti dalla critica, così come fanno gli studenti con i loro docenti, il più delle volte visti con sospetto. Basta frequentare un liceo e chiedere chi sono i registi preferiti. Se un ragazzo ricorda un nome raramente è italiano. Di recente ho incontrato i ragazzi di un liceo classico della capitale, tra i più prestigiosi, e con sorpresa ho annotato che nessuno sapeva chi fosse Federico Fellini, ma neppure citava il nome di un autore giovane. I ragazzi sanno tutto di Steve Jobs o Mark Zuckerberg, ma nessuno ricorda il nome dei registi che hanno filmato le loro imprese. Vent’anni fa nessuno aveva mai sentito parlare di streaming e di online, oggi la maggior parte dei film vengono visti su Internet e la serialità sta prendendo il sopravvento sul cinema. Vent’anni fa i ragazzi facevano la fila per vedere le guerre stellari, oggi i giovani millenial scaricano tutto sui loro telefonini e non fanno differenza tra vedere un film sui display dei loro cellulari e il grande schermo, mandando in bestia i cultori della tradizione e i cinefili. Vent’anni fa la rete non si occupava di cinema né di televisione e Hollywood dominava incontrastata. Oggi Netflix, Amazon, Google, YouTube e numerose altre piattaforme producono e distribuiscono film e serie tv, facendo concorrenza alle major, anzi mettendole in crisi e domani sicuramente superandole per diffusione e fatturato. Vent’anni fa per realizzare un film bisognava avere più di vent’anni e imbracciare una cinepresa del peso di vari chilogrammi, oggi debuttano registi teenager e il corpo degli obiettivi pesa pochi grammi. Di questo passo cosa sarà domani nessuno lo sa.

Roberto Faenza