L’angolo di Michele Anselmi 

Se commissioni a Pietro Marcello, il 44enne regista casertano di “Martin Eden”, un ritratto personale, d’autore, di Lucio Dalla, be’ poi non puoi attenderti un documentario tradizionale, nel bene e nel male. “Per Lucio” resterà solo per tre giorni nelle sale con Nexodigital, ovvero il 5, 6 e 7 luglio, e vai a sapere come reagiranno gli estimatori del musicista bolognese scomparso nel 2012 a un passo dai 69 anni.
Non che il documentario sia particolarmente “sperimentale”, a produrre sono Beppe Caschetto e Rai Cinema, benché Marcello spieghi di non aver voluto “restituire un ritratto puntuale del cantante e nemmeno celebrarlo”, preferendo “rievocare la carriera cangiante, la personalità anarchica e il geniale talento attraverso la voce del suo impresario Tobia (al secolo Umberto Righi, ndr) e del filosofo Stefano Bonaga, suo amico di infanzia”. Ma certo “Per Lucio” non segue un percorso classico, trasvola su molti aspetti umorali e umani, scansa ogni polemica o controversia, in buona misura legando il percorso artistico di Dalla alla sua collaborazione col poeta concittadino Roberto Roversi. Il prima e il dopo sembrano quasi non esistere per Pietro Marcello, infatti quasi tutte le 17 canzoni utilizzate, se non ho contato male, appartengono a quel periodo, certo fecondo sul piano musicale, ma non so fino a che punto rappresentativo di un talento musicale a suo modo unico.
D’accordo, Dalla sarà stato pure “inafferrabile, imprendibile, troppo veloce, la sua figura polimorfa sfugge ad ogni flash, ad ogni definizione: istrione, clown, jazzista, viandante, eroe, poeta, cantore, profeta, trasformista, provocatore”: così leggo sul press-book. Ma poi uno vede un film di 79 minuti e vorrebbe sapere qualcosa di più di Dalla, dell’uomo e del cantante, oltre le amabili rimembranze del manager e del filosofo di fronte a un piatto di tagliatelle fumanti.
L’ambizione del film, scritto con Marcello Anselmo, è chiara: raccontare la storia d’Italia attraverso le canzoni di Dalla. Nella prospettiva di Marcello, il clarinettista jazz passato alla canzone pop per stringere un rapporto intenso col pubblico italiano viene visto come una specie di “eroe” indocile e tormentato, un “ignorante di talento”, che strada facendo acquisisce una densa consapevolezza politica e sociale da trasferire nel manufatto artistico.
Tuttavia già nel 1967 Dalla era stato chiamato a fare l’attore dai fratelli Taviani nel film “I sovversivi” sulla morte di Togliatti, subito dopo aver pubblicato il magnifico 45 giri “Il cielo”; e quattro anni dopo, nel 1971, avrebbe portato a Sanremo l’ispirata e censurata ballata “4/3/43” su testo di Paola Pallottino. Solo nel 1973 nacque il sodalizio con Roversi, certo destinato a imprimere una svolta cruciale nella fluente creatività di Dalla, sul piano della composizione musicale, dello stile espressivo, del modo di cantare e degli argomenti trattati.
Si vede che a Marcello interessa specialmente quella stagione, perché gli permette di stabilire un nesso indissolubile, non so quanto reale alla prova dei fatti, tra l’universo artistico di Dalla e una certa Italia del secondo Dopoguerra, del boom economico, del successivo Sessantotto, fino alla strage di Bologna e alla caduta del Muro. Si vedono immigrati, operai, emarginati, contadini, studenti, femministe, spesso repressi dalle cariche della polizia, s’intende distanti anche fisicamente da quel totem capitalistico rappresentato dall’avvocato Agnelli, evocato sarcasticamente anche in una canzone scritta da Roversi per via del suo inglese perfetto.
Il montaggio tutto politico tra canzoni e immagini d’archivio (a un certo punto appaiono però anche alcune sequenze inedite di “La bocca del lupo” dello stesso Marcello) risulta suggestivo, ben fatto, fantasioso, ma un po’ fuorviante, o tratti decisamente forzato.
Più interessanti, secondo me, sono i frammenti di vecchie interviste in bianco e nero nelle quali Dalla, ancora giovane e senza quell’orribile parrucchino, direi appena arrivato alla popolarità, parla di sé, della madre, del suo rapporto con il cristianesimo, del suo amore per i colori, specie il bianco, dell’irrequietezza esistenziale lenita dalle battute ironiche o ciniche, del riscatto, del “delizioso sapore dell’insuccesso”, del partire e del tornare, delle attese e delle delusioni. “Tu cosa vuoi dalla vita?” gli chiede ingenuamente un giornalista. “Non lo so francamente, ancora” risponde lui.

Michele Anselmi