“Per restare insieme bisogna
parlarsi poco”, Sarà vero?
“Lacci” familiari per Luchetti

La Mostra di Michele Anselmi per Cinemonitor / 2

Sarà vero? “Per restare insieme a lungo bisogna parlarsi poco, l’indispensabile. Tacere sì, tanto”. La pensa così Aldo, il maschio della coppia sposata protagonista di “Lacci”, il film di Daniele Luchetti che ha inaugurato fuori concorso la 77ª Mostra di Venezia. Era dal 1998  che il regista romano, oggi sessantenne, non veniva al Lido. Nel frattempo ha girato parecchi film, alcuni riusciti, altri meno: direi che “Lacci”, pur accolto dai miei colleghi critici con una certa freddezza, appartenga alla prima categoria. Alla base c’è un romanzo di Domenico Starnone ripensato per lo schermo dal regista insieme a Francesco Piccolo. Una storia coniugale d’amore e disamore, nel corso di circa tre decadi, partendo dai tormenti di Aldo e Vanda; e se l’uomo la pensa come sopra descritto, la donna non inclina all’ottimismo, infatti confessa a un certo punto: “Abbiamo vissuto nel disastro”.

L’argomento non è nuovo, s’intende, a tratti viene un po’ da pensare a “Il padre di famiglia” di Nanni Loy, con Nino Manfredi e Leslie Caron, anche se Luchetti predilige altri climi e scansioni. Potremmo definirlo una cine-pièce in tre atti, anche se i primi due si intrecciano sul piano temporale, mentre il terzo, risolutore, custodisce una sorpresa asprigna.

Aldo e Vanda vivono a Napoli nei primi anni Ottanta, hanno due figli piccoli: lui giornalista radiofonico spesso a Roma per le sue trasmissioni a tema letterario, lei insegnante precaria sopraffatta dalle incombenze. Sembrano una copia perfetta, ma c’è il verme dentro. Tornando a casa, lui confessa di essere andato a letto con un’altra, che scopriremo essere la bella e sensuale Lidia. Lei replica fredda: “Perché me lo dici?”. Sarà l’inizio di un doloroso corpo a corpo, con Vanda che ogni tanto dà di matto, in ogni senso, mentre lui, razionale e sistematico di fronte alle ripetute scenate, un po’ la giustifica: “È difficile soffrire in modo simpatico”.

Se Luigi Lo Cascio e Alba Rohrwacher sono i due da “giovani”, Silvio Orlando e Laura Morante sono i due trent’anni dopo. Bisogna un po’ crederci, anzi parecchio, ma “Lacci” non cerca la verosimiglianza, gli interessa mostrare, al di là delle qualità umane dei due, quanto siano devastanti le conseguenze di un amore tenuto insieme con lo sputo e col rancore.

Il titolo allude ai lacci delle scarpe, oggetto di un episodio, ma soprattutto  alle costrizioni soffocanti dalle quali i due, una volta tornati insieme, non sanno come liberarsi. Filo spinato più che lacci amorosi, per tenere in vita, tra foto audaci custodite in un cubo “magico” e lettere nascoste, un rapporto inaridito sin dall’inizio, o quasi.

Insomma, un discreto gioco al massacro, più azzeccato nei duetti senili, s’intende abrasivi, anche se Luchetti introduce per contrasto qualche motivetto pop anni Sessanta, come “Lasciati baciare col LetKiss” delle gemelle Kessler, sia pure immerso tra arie di Bach e Scarlatti (alto e basso…).

Agli attori già citati vanno aggiunti Adriano Giannini, Giovanna Mezzogiorno e Linda Caridi nei ruoli dei due figli ormai grandi e della mitica amante per la quale tutto si compì. Prodotto da Beppe Caschetto e Rai Cinema, “Lacci” sarà nelle sale il 1° ottobre,

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Sono “lacci” di famiglia pure quelli di cui parla, con palpitante autobiografismo, il regista veneto Andrea Segre, classe 1976. Il suo “Molecole”, scelto in chiave di pre-apertura e inserito nella categoria tra i fuori concorso-non fiction, è solo a prima vista un viaggio nel cosiddetto confinamento legato alla pandemia. In realtà  Segre, che proprio qui si fece conoscere col suo “Io sono Li”, viaggia dentro sé stesso con questo documentario creativo nato un po’ per caso dopo il lockdown passato, con moglie e figlia, in una piccola casa alla Giudecca. “Senza pensarlo, scriverlo, organizzarlo, girarlo” assicura.

Il titolo, realitico e metaforico insieme, si riferisce agli studi che il padre Ulderico, nato con un cuore ballerino e morto troppo presto nel 2008, conduceva appunto sulle molecole, in particolare sui radicali liberi. “La scienza per lui era uno strumento per dialogare con l’inevitabile” scandisce la voce del regista, che aggiunge: “Nella vita bisogna affidarsi a ciò che non puoi prevedere”. Ne nasce una sorta di lettera privata al genitore scomparso, ricalcata in parte su una davvero scritta anni e ritrovata dopo la morte; e intanto a far da innesco alla rimembranza affettuosa ecco apparire una tenera foto in bianco e nero che ritrae il trentenne Ulderico, col piccolo Andrea in braccio, mentre scatta una fotografia davanti a uno specchio. Chi guarda chi?

I piccoli movimenti delle molecole, invisibili elementi di materia che  pure determinano l’evoluzione delle nostre vite, diventano così lo spunto drammaturgico di questa strana elegia, nella quale si mischiano filmini di famiglia e frammenti di un documentario cominciato a febbraio, poco prima che tutto si fermasse, su due temi squisitamente veneziani: l’acqua alta e il turismo. Solo che le immagini girate allora da Segre mostrano, per contrasto, una Venezia senza turisti, quasi spettrale e stupenda, peraltro “colpita” da un’inedita bassa marea.

La voce narrante di Segre è calma e riflessiva, intreccia ricordi giovanili e riflessioni “filosofiche” sul vivere in laguna, per approdare a una quieta consapevolezza esistenziale: “Ciascuno parte con una pagina scritta, tanto vale accettarlo”. Sui titoli di testa c’è una frase tratta da “Lo straniero” di Camus, il libro preferito dal taciturno papà Ulderico, uno che non parlava molto di sé; ma forse il cuore del film, un po’ verboso nel finale e scandito dalle musiche inquiete di Teho Teardo, risiede nel sentimento di perdita acuta e penetrante che, direi a ogni età, un figlio vive sulla propria pelle. Già: ci si prepara per tempo alla perdita dei genitori, eppure non si è mai pronti. Nelle sale, poche, da giovedì 3 settembre.