L’angolo di Michele Anselmi
Certo dispiace un po’che “È stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino non abbia vinto l’Oscar per il miglior film internazionale, cioè non girato in inglese, ma è anche vero che il bis, a nove anni da “La grande bellezza”, è apparso subito improbabile. Soprattutto perché c’era in ballo un notevole film giapponese, “Drive My Car”, diretto da Ryūsuke Hamaguchi, il quale ha adattato per lo schermo un racconto di Haruki Murakami contenuto nella raccolta “Uomini senza donne” (2014). Certo il regista s’è un po’ allargato: il racconto di poche pagine diventa un film di tre ore, pieno di digressioni, sottostorie, insistenze, citazioni teatrali e non solo, da “Aspettando Godot” di Beckett al molto più cruciale “Zio Vanja” di Cechov, passando per i precetti filosofici di Schopenhauer.
Uscito nelle sale italiane a settembre 2021 con la benemerita Tucker Film, “Drive My Car” incassò in tutto meno di 300 mila euro; da settimane lo si può vedere su Sky, ma spero comunque che l’Oscar di stanotte offra una seconda chance sul grande schermo. Certo vederlo doppiato in italiano non aiuta; ben diverso è il suono della presa diretta giapponese, e quindi la profondità e la scansione, l’effetto voce-volto anche nella moltiplicazione delle lingue usate (giapponese, inglese, cinese, coreano). Sky offre la versione originale con i sottotitoli e quella raccomando, pur plaudendo al parziale ritorno in sala del film. Che ho visto due volte: la prima annoiandomi un po’, non capendo bene il senso di una lunga parte centrale dedicata ai provini teatrali in vista di uno strano “Zio Vanja” da rappresentare a Iroshima; la seconda facendomi invece conquistare anche dai “tempi morti”, sempre che tale siano, dalle divagazioni, dalle sfumature, dalle variazioni sul tema, anche dal senso di quieta disperazione che grava sulla vicenda.
La smaltata Saab rossa, turbo 900, costruita dalla casa svedese fino al 1998, è naturalmente qualcosa di più di una semplice auto di scena: racchiude, anche cromaticamente, lo stato d’animo dei personaggi, pure il loro peregrinare esistenziale: lui è un regista teatrale rimasto vedovo (la moglie amatissima lo tradiva con altri uomini), lei è la giovane autista che gli hanno affibbiato contro la sua volontà (ha una vicenda familiare devastante alle spalle). “Drive My Car” è la storia di una doppia guarigione, in mezzo ci sono: il sesso, la fedeltà, l’invenzione delle storie, la ferocia umana, le giravolte del destino, il dolore della perdita e la potenza della parola. Consiglio di vederlo senza guardare l’orologio, mettendo al bando la fretta; sapendo che potrebbe molto tediare o anche molto toccare.
Michele Anselmi