L’angolo di Michele Anselmi 

Mi chiedo se abbia senso fare uscire nelle sale, in meno di un mese, due film di François Ozon: lo scorso 25 aprile “Mon crime – La colpevole sono io” (Bim) e giovedì prossimo, 18 maggio, “Peter von Kant” (Academy Two). Dice: sono film totalmente diversi, il secondo risale al 2022, nel senso che fu girato prima dell’altro e poi rimase senza distribuzione italiana dopo aver inaugurato la Berlinale. Tutto vero. Ed è altrettanto vero che Ozon sia regista versatile, eclettico, come pochi. Chissà come reagirà il pubblico, ormai ristretto in Italia, dei “fassbinderiani” (non esistono solo i “morettiani”), dal cognome del geniale e maledetto cineasta tedesco Rainer Werner Fassbinder, morto a soli 37 anni, nel 1982, per una overdose da cocaina.
Ozon, omosessuale dichiarato, aveva già reso omaggio all’illustre collega portando sullo schermo nel 2000 la pièce teatrale “Gocce d’acqua su pietre roventi”; con “Peter von Kant” fa qualcosa di più e diverso. Riprende pari pari, o quasi, il film del 1972 “Le lacrime amare di Petra von Kant”, girato da Fassbinder in un interno, dieci giorni di riprese in tutto, ma con una variazione non di poco conto: l’annoiata stilista di successo interpretata da Margit Carstensen, s’intende lesbicheggiante, diventa qui un regista omosessuale, benché padre distratto di una quattordicenne avuta dalla moglie morta in un incidente, che allude, nel fisico, negli abiti e nei modi, proprio a Fassbinder prima del disfacimento fisico. L’incarna il monumentale attore francese Dénis Menochet, che abbiamo appena visto in “As Bestas”. Lui è, appunto, Peter von Kant, murato vivo nella sua casa di Colonia, sempre inquadrata da fuori per pochi secondi, prima che la cinepresa entri al suo interno.
È il 1972: il regista del futuro “Il matrimonio di Maria Braun” sta cercando di ingaggiare Romy Schneider, e intanto vive come un divo viziato e insopportabile, accudito dal taciturno Karl, un po’ cameriere e un po’ amante a tempo perso, quando proprio non c’è di meglio.
Il cineasta è scontroso, capriccioso, volubile. Si commuove ascoltando “In My Room” dei Walker Brothers, e intanto incontra in varie riprese i personaggi inventati da Fassbinder: cinque in tutto. Ecco la porcellanata star Sidonie von Graseabb, scaltra e carismatica (Isabelle Adjani); ecco il giovane arabo riccioluto Amir Ben Salem, lesto a infilarsi nel letto del regista e a restarvi per mesi, salvo poi mollarlo all’improvviso (Khalil Ben Gharbie); ecco, appunto, il docile e baffuto Karl che tutto osserva (Stefan Crepon); ecco la figlia Gabrielle alle prese con adolescenziali sofferenze amorose (Aminthe Audiard); ecco la vecchia madre Rosemarie, fattasi viva con un regalo per festeggiare i quarant’anni del figlio (Hanna Schygulla).
Diviso in quattro “quadri”, il film rispetta la vocazione teatrale, anche nell’elegante allestimento, in un succedersi di scenate, balletti a due, telefonate, affondi sarcastici, sesso sotto le lenzuola, tirate di cocaina e infine lacrime amare, le stesse promesse dal testo originale. C’è anche una battuta impertinente su Zeffirelli, definito “quella checca pazza dell’opera”. A suo modo un melodramma, tra fiammeggiante e ridicolo, racchiuso in una stanza, anche una riflessione sulle dinamiche dell’amore, omo o etero che sia. “Ogni uomo uccide ciò che ama” canta Sidonie; mentre von Kant teorizzerà in sottofinale: “Bisogna imparare ad amare senza esigere nulla” (pare facile).
Il tutto dura 82 minuti, il film di Fassbinder ne sfoderava 40 di più. Non saprei dire quanto serva aver visto “Le lacrime amare di Petra von Kant” per apprezzare questo remake affettuoso e alquanto cinefilo, a occhio non per tutti. Vederlo in francese è stato per me un po’ spiazzante, essendo la storia ambientata in Germania; magari, per una volta, il doppiaggio aiuterà.
PS. Hanna Schygulla, molti chili e anni fa, fu la giovane amante Karin.
Michele Anselmi